Italiani popolo di tifosi, il calcio sport nazionale per antonomasia.
Il rapporto privilegiato del Bel Paese con il pallone si consolida nel corso del Ventennio fascista. E' noto che a partire da quel periodo, e via via in modo piu' sistematico, il fascismo attiro' a se' specifici settori della cultura e dell'intrattenimento quali strumenti per costruire il volto nuovo della nazione e dell'identita' italiane. Anche il calcio non si sottrasse a questa strategia e, come la scienza, la letteratura, la musica, l'architettura, opportunamente manipolato, entrò a far parte di quel meccanismo attraverso cui il regime tento' di assicurarsi il consenso delle masse.
Nel saggio Calcio e Fascismo (Milano, Oscar Mondadori, 2006) Simon Martin indaga le strategie attraverso cui gradualmente il calcio si trasforma da semplice passatempo quale era in uno strumento privilegiato per la costruzione di un'identita' nazionale fiera e orgogliosa. La sua natura, secondo il Duce, lo rendeva capace di esaltare il popolo, di coinvolgere ampi e diversificati gruppi sociali, di muovere passioni e sentimenti.
La volonta' di inquadrare il popolo, educarlo ai dettami fascisti, e' un aspetto affascinante e in certo senso nuovo nel panorama politico nazionale, se e' vero che Mussolini per primo e piu' di tutti mise in pratica il pensiero del sociologo francese Gustave Le Bon che, indagando la psicologia delle masse, si era reso ben conto che laddove esiste un potere forte esiste la sottomissione e la manipolazione delle menti. Le masse, insomma, necessitano di una guida che fornisca loro sicurezze.
Nei primi capitoli del saggio l'autore fa una ricognizione alla larga del fenomeno più
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ampio noto come "nazionalizzazione": la necessita' di ottenere il consenso del popolo intervendo a gamba tesa in tutti quei settori che permettessero un controllo dell'individuo, anche quelli piu' "volgari", come appunto il calcio. Non e' dunque un caso che negli anni '30 il calcio da gioco prevalentemente "fascista" si trasforma, cresce, attira a se' migliaia di individui, dilaga da Nord a Sud della penisola, trionfando sullo scenario internazionale, assumendo le caratteristiche che conserva tutt'oggi: gioco di squadra con precise logiche e tattiche.
Le prime pagine del volume risultano le piu' incisive, laddove l'autore spiega come il regime attirò sotto la sua ala protettiva questo sport e lo trasformò in qualcosa di unico. Il fascismo aveva compreso cio' che i precedenti governi liberali, i comunisti e i socialisti avevano ignorato, cioe' il grande potenziale che il calcio era in grado di esercitare nello stimolare l'interesse e il sostegno delle folle.
Socialismo e cattolicesimo, i principali movimenti in grado di offrire occasioni di partecipazione e svago sportivo e ricreativo nell'Italia prefascista, considerarono lo sport solamente come un mezzo per sviluppare la forza fisica e militare. In tal modo persero una grande occasione per fare proseliti proprio perche' lasciarono che esso fosse apolitico e destrutturato. C'erano stati alcuni tentativi di appropriarsi dell'ambito sportivo, ad esempio attraverso l'organizzazione di associazioni e federazioni sportive di stampo cattolico, tuttavia almeno fino alla Pima guerra mondiale l'approccio nei confronti dello sport fu negativo da parte dei movimenti politici sopraddetti.
L'esistenza poi di queste associazioni e gruppi fu messa a dura prova dal regime, che gia' da subito tento' di relegare tali iniziative al solo ambito ricreativo, dunque agli oratori.
Per il socialismo, poi, permaneva la profonda influenza del pensiero marxista, secondo cui anche lo sport, al pari, della religione, era una sorta di oppio dei popoli, un fattore distraente nei confronti del primo obiettivo delle masse, lo scopo ultimo, la lotta di classe. Permaneva la visione dello sport come "vizio da borghesi", inconcebile era quindi parteciparvi. Anche nell'ambito socialista c'erano coloro, come il direttore dell'"Avanti!", Giacinto Serrati, ad aver suggerito un atteggiamento piu' flessibile se proprio non di approvazione, salvo poi riconoscerlo in un secondo momento come valido strumento di organizzazione della lotta di classe.
Il fascismo, invece, fece quello che "il vecchio liberalismo e la stessa democrazia hanno sempre trascurato: si e' portato al popolo, e' andato tra i contadini, gli operai, gli agricoltori, la classe media, si e' avvicinato agli studenti, ai giovani, ha interpretato i bisogni del popolo, lo ha educato politicamente e moralmente, lo ha organizzato non solo dal punto di vista professionale ed economico ma anche sotto la prospettiva militare, culturale, educativa e ricreativa ".
Il fascismo rivide l'atteggiamento del potere nei confronti dello sport, considerandolo piuttosto strumento di rigenerazione della societa' di massa, funzionale in ultima analisi a combattere i mali del tempo (alcolismo, tubercolosi, malaria, scarsa natalita'), sintomi di una societa' malata, poco attenta all'igiene fisica.
Come ottenere concretamente il consenso attraverso il calcio? Essenziale era agire sull'istruzione che, fin ad allora, aveva sostanzialmente attribuito scarsa importanza alla pratica sportiva. L'educazione fisica diventa da adesso obbligatoria in ogni ordine di studi, e si investe sulla formazione di insegnanti piu' preparati (nel 1928 nasce a Roma il primo istituto maschile di educazione allo sport, che sceglieva i propri allievi dopo una dura selezione fatta di prove fisiche e naturalmente sull'appartenenza al partito).
Prototipo di questa rinnovata figura di istruttore fu Vittorio Pozzo, allenatore della nazionale italiana, quella vincitrice dei Mondiali del 1934. Nonostante avesse negato piu' volte l'utilizzo di tecniche di persuasione psicologica, Pozzo usava immagini nazionaliste e allusioni alle tecniche di combattimento per sottolineare il ruolo dei giocatori come rappresentanti della nazione e del regime. Egli stesso aveva detto che "il fattore psicologico e' fondamentale per gli italiani. E' necessario che la gente sia motivata… ".
Il calcio, oltre che essere un'attivita' ricreativa e sana, rappresentava per il fascismo un'occasione bella e buona per mobilitare milioni di persone, per veicolare e convogliare le passioni di generazioni, organizzandole ed educandole ai valori predicati dalla gerarchia. Era chiaro, dunque, fin da subito, che il calcio non pote' sottrarsi all'influenza della politica, con tutte le conseguenze deleterie che cio' comporto', prima tra tutte il rinfocolarsi e l'acuirsi di un campanilismo squisitamente italiano, che si spinse spesso all'inverosimile. Aspetti ben evidenziati da Martin, che non si limita a semplici citazioni ma a un'analisi circostanziata degli scontri tra fazioni in occasione dell'incontro Genoa-Bologna disputato a Torino nel 1925.
A facilitare il compito alla gerarchia fascista in questo tentativo di creare un senso di
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identita' collettiva richiamando i valori dell'antica romanita' era la circostanza che il calcio fosse gia' praticato nel nostro Paese. Si trattava dunque piu' che di creare, di riorganizzare questo sport su nuove premesse. Anzicche' dunque abolire le vecchie societa' calcistiche gia' esistenti, esse furono ristrutturate imponendo lo spirito di disciplina che caratterizzava lo spirito fascista, e di rafforzare gli aspetti piu' tecnici e politici. Cosi' i calciatori erano scelti e selezionati proprio perche' rappresentavano nel migliore dei modi l'ideale di "uomo nuovo" che il fascismo andava predicando in quegli anni: l'atleta sul campo era metafora del soldato in battaglia, che si sacrifica per l'onore e la gloria dell'intera squadra. Allo stesso modo compito dell'atleta era di portare il nome dell'Italia nel mondo attraverso l'unica arma che fosse in suo potere: la vittoria.
I calciatori diventavano dunque esemplari per due ordini di motivi: la prestanza del loro aspetto fisico e il loro resistente stato di salute, in secondo luogo perche' funzionali a un gruppo, alla squadra. I meriti del calcio per i fascisti non si fermavano qui: esso contribuiva a rafforzare il senso di identita' e di Patria ("Le maglie italiane sono diventate in tutti i campi simbolo di capacita' e di destrezza, di ardore e di affermazione" recita un articolo della Gazzetta dello Sport, Fiorente primavera dello sport fascista, 31 maggio 1938).
Il campanilismo cui si accennava sopra non fu l'unica pecca nelle intenzioni del regime. A complicare il quadro, e a dimostrazione delle innumerevoli contraddizioni con le quali il sistema fascista dovette fare i conti, ci fu anche la cosiddetta "questione degli oriundi", quei giocatori cioe' provenienti da Paesi stranieri, che mise a dura prova le fondamenta stesse delle discriminazioni razziali di cui anche il fascismo diede prova. Tant'e' che la questione divenne sempre piu' pressante nel 1938, quando appunto erano entrate in vigore anche in Italia le Leggi razziali. Un problema a cui il fascismo rispose aggirando la questione, con l'escamotage della doppia cittadinanza.
I successi italiani sui campi da gioco internazionali erano diventati sempre piu' frutto di un lavoro di squadra fatto anche da giocatori stranieri, in particolare provenienti dal Sud America. Questo agevolo' la gerarchia, che punto' l'attenzione sulla loro origine italiana (anche nei casi in cui questa era tanto lontana) e sulla dedizione alla causa della vittoria mettendo da parte l'orgoglio nazionale.
Ci fu anche una terza contraddizione. Quella stessa flessibilita' che aveva consentito di arginare la questione degli oriundi oriento' le scelte del Duce anche nell'ambito dell'architettura.
La necessita' di non alienarsi le simpatie e l'appoggio politico di ampi strati della cultura nazionale impose al regime di lasciare ampia liberta' di manovra agli architetti e agli ingegneri che progettarono gli stadi sportivi. L'importante era che essi rispettassero alcuni parametri stabiliti dall'alto: la monumentalita'e il rapporto stretto con la citta'. Lo stadio era essenziale nell'ottica fascista. Forse proprio attraverso la considerazione della loro natura e' possibile, questo lascia intendere Martin, risalire all'importanza sempre crescente che il fascismo attribuiva al calcio. I due prototipi di stadi fascisti sono il Littoriale di Bologna, il primo in termini di tempo a vedere la luce, e il "Giovanni Berta" di Firenze. Pur nella loro assoluta diversita' architettonica stanno a significare la volonta' del fascismo di richiamare le radici della Roma imperiale e al tempo stesso la volonta' di guardare al futuro, agli aspetti piu' trasgressivi e moderni dell'Italia fascista.
Il Littoriale di Bologna appartiene alla prima categoria (dove e' chiaro gia' nel nome il riferimento ai littori romani il cui simbolo era il fascio di verghe con al centro un'ascia di cui il partito fascista si era appropriato). Lasciare ampi spazi di liberta' individuale era per il regime un fatto di sopravvivenza, un modo per avvicinare esponenti della cultura, l'arma piu' efficace per attrarre molti pensatori e artisti. "Mussolini, diversamente da Hitler, la pensava in maniera diversa riguardo alla questione culturale: aveva poco interesse per le arti e si teneva al di fuori dei dibattiti estetici dell'epoca… Cio' che ne risulto' fu un'idea piuttosto vaga di arte fascista che lasciava agli artisti mano libera per la scelta di argomenti, stile, composizione, forma… ".
Il Littoriale fu il desiderio del gerarca fascista Leandro Arpinati, che lo concepi' dopo una visita alle Terme di Caracalla. La carriera di Arpinati, presa la tessera del partito, fu fulminante. Nato da una modesta famiglia, Arpinati in gioventù era stato un anarchico convinto, di mestiere lavapiatti e poi elettricista. Dall'incontro con Mussolini nel 1910 fu evidente l'affinita' tra i due. Ad accomunarli il sogno di una societa' nuova e diversa.
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Arpinati divenne il fondatore del fascio di Bologna e fin da subito maturo' la convinzione di prendere in considerazione mezzi alternativi per ottenere il consenso, come il controllo del quotidiano "Il Resto del Carlino" e la fondazione di altri, come "Il Littoriale" e "L'assalto".
Fu sua l'idea di costituire un'unica societa' sportiva, fu lui a volere che il Littoriale diventasse non solo lo stadio piu' importante della citta' e simbolo stesso della citta' fascista ma anche il centro di un nuovo sviluppo di Bologna verso la periferia. Attorno ad esso furono infatti costruiti ospedali, l'aeroporto di Panigale, l'ippodromo, un quartiere fieristico, un centro di cultura ed arti, scuole, case. Ne risulto' un beneficio incommensurabile per i commercianti. Oltre che fare di Bologna il principale snodo ferroviario che collegava il Nord al Sud dello Stivale.
Tuttavia ben presto il Littoriale mostro' le sue contraddizioni fino ad attirarsi l'odio dei bolognesi: troppo grande, quasi mai pieno anche durante le partite piu' importanti. C'era poi il problema dei trasporti, diventati ingestibili a mano a mano che la citta' si ingrandiva.
Per certi aspetti diversa fu l'esperienza dell'AC Fiorentina, una squadra che, nonostante la citta' si presentasse come la culla del calcio, nacque solo nel 1926, ben dopo quella bolognese. Si tratta di una data significativa, perche' coincide con la riorganizzazione della locale sede del partito fascista. L'anima del calcio fiorentino era il marchese Luigi Ridolfi, anche primo presidente della Fiorentina. Come quello bolognese anche il "Giovanni Berta" aveva un chiaro significato politico, propagandistico, rappresentava nella sua struttura anche gli elementi della rinascita (morale, psicologica, fisica). Gia' nel nome stesso era chiaro l'intento: Giovanni Berta era stato uno squadrista fascista, coinvolto nell'assalto a Bologna del 1921 durante il quale fu ucciso un manifestante di sinistra. Finì ucciso egli stesso durante altri scontri.
E' vero, come sostiene Martin, che agli occhi dei piu' sprovveduti due stili, due architetture – antico e moderno – potevano sembrare cosi' contraddittori, tuttavia non si possono negare gli indubbi progressi che il fascismo ottenne nel trasformare il calcio in uno sport popolare, accessibile a chiunque, non riservato a un'elite. Lo dimostra il proselitismo che questo approccio fece in altri Paesi: stadi comparvero in Norvegia, Finlandia, Bulgaria, Slovacchia e naturalmente in Germania.
L'efficienza e l'attenzione con la quale erano costruiti gli stadi mostra ulteriormente l'importanza che il regime attribuiva allo sport, in particolare al calcio: spogliatoi separati per arbitro e giocatori, accessi alle tribune direttamente dalle strade, scale che agevolassero il collegamento con gli spalti, potenziamento dei mezzi pubblici tra la citta' e gli stadi. In un sistema così concepito anche il pubblico diventava parte integrante dello spettacolo: le ripide gradinate facevano si' che i tifosi non fossero mai separati dall'azione ne' dal punto di vista visivo ne' da quello uditivo.
A mano a mano che il calcio cresceva di importanza per il regime fu inevitabile lo sviluppo di un'efficiente burocrazia: le societa' che aspiravano a costituirsi dovevano dimostrare che la loro attivita' si sarebbe conformata alla legislazione fascista e che avrebbero fornito il loro contributo allo sviluppo dello spirito nazionale. Nacque un nuovo ufficio per lo sport col compito di curare i rapporti tra il CONI e il partito stesso.
L'impegno andava dalla formazione degli insegnanti, alla costruzione degli impianti sportivi, all'educazione dei giovani e degli adulti alla disciplina militare e alla gioia dell'esercizio fisico. Insomma un inquadramento progressivo che Carlo Levi ha ben spiegato… "una volta inquadrati attraverso attivita' che riempissero il loro tempo libero, gli eventi sportivi li avrebbero tenuti lontani dai crescenti problemi sociali, politici, economici. (…) all'interno delle organizzazioni sportive si sarebbe potuto fornire loro un indottrinamento semplice e accessibile, corredato da nozioni generali di cultura fascista, valvola di sfogo da una parte e sistema di controllo dall'altra ".
La burocratizzazione del calcio divento' esasperata a mano a mano che lo sport faceva proseliti, attirando a se' milioni di tifosi. Le societa' allora cominciarono a finanziare le tifoserie perche' potessero seguire la propria squadra in trasferta. Il calcio, insomma, era diventato un elemento costante della vita di ogni italiano, animava le sue domeniche al punto che non si e' piu' in grado di stabilire quanto la gente avesse aderito al fascismo per convinzione e tramite il calcio, visto che la partecipazione – sia in qualita' di attore
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protagonista/giocatore sia come spettatore – puo' essere considerato da sola elemento di consenso o meno, e al punto di mettere in dubbio il suo contributo alla creazione di un'identita' collettiva visto che anzicche' sminuirle accentuava le rivalita' locali specie in occasione di competizioni nazionali.
Proprio per frenare una situazione che stava sfuggendo dal controllo, la gerarchia fascista impose nel 1926 la Carta di Viareggio, che riferi' direttamente la gestione delle federazioni calcistiche al Duce. Non fu l'unica conseguenza: tra le altre la messa al bando dei giocatori stranieri in favore di quelli italiani ingaggiati dalle squadre meridionali. In ultima analisi ne risulto' minato lo spirito del gioco: quando impegnate all'estero le squadre italiane erano viste come simbolo dell'ideologia fascista e private della loro identita' cittadina. Quando il fascismo si guadagno' le antipatie dei Paesi stranieri, si puo' immaginare che conseguenze questo avesse anche in ambito sportivo.
Il culmine di questa politica del consenso furono i campionati e, soprattutto, i Mondiali e le Olimpiadi. Un primo banco di prova dei progressi che il calcio italiano aveva raggiunto in pochi anni furono le Olimpiadi di Amsterdam del 1928, che l'Italia perde di stretta misura contro l'Uruguay. Nessuno, tuttavia, poteva mettere in dubbio i successi ottenuti dalla nazionale.
Ma Mussolini volle di piu', come dimostra l'incarico a Lando Ferretti di riorganizzare il CONI, rendendolo un organo direttamente rispondente al partito. Cosi' gli anni che precedettero le Olimpiadi di Los Angeles del '32 furono anni di grande preparazione, durante i quali gli atleti furono considerati patrimonio della nazione, ambasciatori d'Italia nel mondo. Le Olimpiadi si conclusero con un palmares per l'Italia di tutto rispetto, posizionandola al secondo posto nel medagliere internazionale. Gli atleti furono ricevuti direttamente dal Duce e poi a Milano da Arpinati che conferi' loro la "medaglia di acciaio", il piu' alto riconoscimento a livello nazionale.
I Mondiali del 1934, svoltisi in Italia, furono poi l'ulteriore occasione non solo per mostrare al mondo i progressi e la potenza del calcio italiano, ma anche per esibire la gamma intera delle capacita' del regime, organizzando alla perfezione la competizione. Fu in quell'occasione che nacque un intero indotto che ruotava intorno all'organizzazione della prestigiosa gara: treni speciali a prezzi ridotti fino al 70%, francobolli coniati per l'occasione e biglietti per gli incontri stampati su una carta particolare che consentiva di conservarli a mo' di souvenir, uno stuolo di giornalisti, adeguatamente preparati, al seguito delle nazionali. Persino una campagna pubblicitaria organizzata appositamente per i Mondiali.
L'apice di questa macchina organizzativa fu la festa per la vittoria finale, giocata allo Stadio Olimpico davanti a cinquantamila spettatori, preparati a cantare inni fascisti, sventolando fazzoletti sui quali era stampato il nome del Duce. Una vera e propria ovazione in occasione della quale furono commemorati atleti del passato morti al servizio della Patria. BIBLIOGRAFIA
- Calcio e Fascismo,di Simon Martin – Oscar Mondadori, Milano 2006