Il governo fascista comprese subito la popolarità e il potenziale del gioco del calcio, “ma solo dopo la guerra quello sport conobbe il suo massimo successo”, commenta Simon Martin, storico ed autore di Football and Fascism – The national game under Mussolini [ N.d.T.: Calcio e fascismo – Il gioco nazionale sotto Mussolini]. “È scontato che alcune tra le prime squadre nacquero tra 1880-90, ma il gioco esplose soprattutto dopo la prima guerra mondiale. Ed è una delle ragioni per cui i fascisti vollero assumerne il controllo.”
Qual è però la ragione della popolarità del gioco (che rasenta l’ossessione religiosa)? “Inizialmente ebbe successo per il solo fatto di essere stato introdotto”, afferma Martin, con la sicurezza di uno studioso che è anche tifoso. “C’è un dibattito sulle sue origini, – continua. – I fascisti stessi erano abbastanza convinti nell’asserire che il Calcio Fiorentino fosse all’origine del moderno gioco del calcio. Alcuni dicevano che veniva dal Sud, da Napoli. Ma effettivamente, la maggior parte delle persone sono d’accordo nell’affermare che fu introdotto da mercanti inglesi, soprattutto a Genova, città che vide nascere le squadre di calcio e di cricket tra le prime in assoluto di tutta la nazione. Una volta introdotto, ebbe un successo travolgente, più che altrove. Fu soprattutto dovuto all’avanzare dell’industrializzazione. Non è un caso infatti che il gioco esplose nel Nord, nel triangolo industriale costituito da Genova, Torino e Milano, dove le imprese cominciavano a pubblicizzare lo sport, sia per moventi filantropici, che per ragioni di controllo sociale. Non era in realtà uno sport molto importante nel Sud, a causa della grande estesione delle aree rurali infatti, la mancanza di grandi città non permetteva la presenza della folla di cui si aveva bisogno. L’evoluzione del gioco era strettamente connessa alla crescente industrializzazione, che avvenne abbastanza tardi in Italia.”
La combinazione tra la popolarità dello sport nel 1920, ed il clima di tensione sociale che portò il fascismo al potere, diede al calcio l’attenzione del regime al potere. Si può segnalare una data precisa per l’intervento del fascismo nel calcio italiano. “Il momento specifico è rappresentato dal 1926, con la redazione della Carta di Viareggio”,spiega Martin. “C’è la prova dell’interesse fascista allo sport, un po’ prima, ma risulta impossibile dimostrarlo. Prima del 1926, gli interessi sportivi di Mussolini erano proiettati verso sport più ‘nobili’, quali la scherma, la boxe, la caccia, e sport motoristici.”La Carta di Viareggio è stata redatta dopo diverse partite molto controverse e alcune decisioni arbitralidel 1925, che avevano portato un po’ di caos nel calcio, come Martin afferma. “Nel 1925, tra il Bologna ed il Genova si disputò un play-off, che fu ripetuto ben cinque volte. Durante una partita che si giocò a Torino, si verificarono disordini tra la folla. Furono sparati alcuni colpi tra il pubblico, e la ripetizione dell’incontro fu giocata a porte chiuse, dove i soli spettatori erano per puro caso dei fascisti bolognesi guidati da Leandro Arpinati (che finì col diventare il Presidente della FIGC, la Federazione Italiana Giuoco Calcio). Si riporta che stessero ai bordi del campo, con le pistole ben in mostra, e un fare intimidatorio. Arpinati quindi era davvero consapevole del gioco e della sua influenza, soprattutto a Bologna. L’anno clou per il fascismo nel calcio, fu il 1926, quando presentarono [il governo] un gruppo d’esperti per redigere questa Carta di Viareggio.” Il documento riorganizzò il gioco e sua amministrazione, con nomine per i diversi enti che regolavano il calcio che rientravano nel quadro delle responsabilità di Mussolini. “Qui inizia ciò che molte persone definiscono il ‘calcio in camicia nera’.”
Il calcio, ad ogni modo, non era necessariamente il mezzo primario per comunicare con le masse. Divenne però tra i più efficaci.”Avevano accarezzato l’idea di un teatro fascista, un teatro per la gente, e fecero la prova con un teatro per 20.000 persone a Firenze. Furono spesi soldi ed energie, ma non ebbe molto successo. Con il calcio capirono subito che, mentre spendevano questi soldi altrove, ogni weekend c’erano forse 200,000 persone intenzionate ad assistere agli incontri, insieme a coloro che non ci andavano ma mostravano un vivo interesse a riguardo.” E così la FIGC sotto il controllo fascista creò una nuova lega nazionale. La prima lega nazionale comparve nell’anno 1928-29, con due divisioni – nord e sud – e il vincitore deciso allo spareggio. La prima unica lega nazionale –la Serie A – scese in campo nel 1930. Tutto ciò fu accompagnato da un progetto estensivo di costruzione di stadi e l’introduzione di programmi di educazione fisica.
“I fascisti furono abbastanza astuti in questo periodo in quanto riconobbero nel calcio la sua vera natura: uno sport amato dalle masse. Era davvero l’unico mezzo di cui disponevano per raggiungere la società di massa. Poco importa se accadeva tramite coloro che guardavano gli incontri, o tramite coloro che leggevano i giornali, o che ascoltavano altri leggere i giornali. Erano entusiasti all’idea di attaccarsi ad uno sport nazionale, ed il calcio aveva questo ruolo. Non ebbe nessuna imposizione nel divenire uno sport fascista. Queste squadre dovevano essere capeggiate da fascisti. In un certo senso accadde automaticamente, con la creazione di una lega nazionale. Con la Serie A, vollero creare un senso d’identità nazionale. Quindi, piuttosto che avere diverse ‘leghe’, come la Lega Campania, la Lega Lazio, vollero una lega nazionale unica, che dicesse ‘questa è un’unica nazione’, così il Napoli si sarebbe spostato fino a Torino per incontrare la Juventus. Nel contempo capirono che per avere una lega nazionale non potevano esserci troppe mini squadre. Per esempio a Roma, c’era un vasto numero di squadre, ma si fusero in una sola per formare l’AS Roma, che era guidata dal leader fascista del posto, Italo Foschi. Arpinati era il Presidente della federazione calcio nel mentre, e fu proprio lui a rendersi conto di tutto ciò. Disse alle squadre che se volevano far parte della lega dovevano mettere insieme le proprie forze, così automaticamente molti dei Comuni, governati dai fascisti, incoraggiarono le proprie squadre ad unirsi per formare un'unica squadra che avrebbe rappresentato la città. Non si trattava di una disposizione, ma poiché le città erano sotto il controllo del partito fascista, fu un’azione quasi automatica.”
In questo periodo, Bologna, la capitale dell’Emilia, la regione dove nacque Mussolini, segnò diverse vittorie memorabili, vincendo lo scudetto ben cinque volte tra il 1929 ed il 1941. “Il Bologna era particolarmente forte in quegli anni,” afferma Martin, prima di spiegare come funzionava il calcio a livello locale. “Erano forti soprattutto a causa dell’importanza del partito locale, che era guidato da Arpinati, coinvolto nel calcio. Furono investiti molti soldi. Per esempio, costruirono uno stadio (allora visto come un’espressione moderna e al contempo meravigliosa dell’architettura fascista). Spesero ingenti somme di denaro per il calcio e per la squadra. Ci furono agevolazioni fiscali e sovvenzioni da parte del Comune stesso. Quest’ultimo fu un grande sostenitore del Bologna perché sapeva che la squadra a sua volta apportava numerosi vantaggi. Era una grande pubblicità per la città.”
Il potente ruolo che il calcio aveva nel creare un’identità unificata era in parte ciò che spingeva lo Stato ad un coinvolgimento nel gioco. L’Italia, dopo tutto, esisteva come una nazione unita dal 1861 (con capitale a Torino). Per il governo fascista, la creazione di una lega nazionale permise loro di creare un senso di appartenenza alla nazione. Aveva però anche l’effetto indesiderato di creare oppure, a seconda dei casi, di alimentare rivalità locali. “Il regime era davvero preoccupato riguardo al ‘campanilismo’, questo richiudersi in una identità locale, atteggiamento che associamo più con il Medioevo e l’era delle città-stato. È stato scritto molto dal regime contro questa tendenza, per esempio ‘non c’è posto per un provincialismo idiota nella nostra società’. Volevano davvero metter fine a questo tipo di rivalità. Ci sono alcune relazioni negli archivi nazionali in cui si parla di alcune partite particolarmente sorvegliate dalla polizia durante le quali si temevano disordini. Per loro era una lama a doppio taglio. Non penso si aspettavano che ciò poteva realmente accadere. Poteva sembrare ingenuo come atteggiamento da parte loro, ma quando ciò accadde, non rinunciarono al calcio, ma, piuttosto, dissero alla gente che lo sport non doveva essere fatto in questo modo in uno stato fascista”.
Mentre le rivalità locali continuavano ad essere alimentate, la crescita del prestigio dell’Italia a livello internazionale assunse un ruolo importante nella propaganda del regime. Lo sport, svolse sicuramente una funzione filosofica nel fascismo, con Leandro Arpinati che affermava che “non c’era niente di più utile dello sport per migliorare la razza a livello fisico, in quanto fornisce disciplina, modella i muscoli e plasma il carattere” [Martin, , pag.32]. Nello stesso tempo, vincere era la cosa più importante, soprattutto per l’opportunità di propaganda che forniva la vittoria. “Vincere era fondamentale, – concorda Martin. – Erano spietati in relazione ai giocatori che utilizzavano, e a ciò che facevano per vincere. Inizialmente, nel 1926, quando riorganizzarono il gioco secondo nuovi criteri, introdussero un divieto sui giocatori stranieri. Inizialmente c’era un numero fisso di due giocatori per due anni, dopo di che venne introdotto un completo divieto. Poi si arrivò alle Olimpiadi del 1928 e alla Coppa del Mondo nel 1930, dove videro giocare squadre molto forti, come Argentina ed Uruguay,in campo per le quali scesero giocatori nati da emigrati italiani. Gli italiani assunsero un atteggiamento molto pratico, e invece di lasciar perdere la legge e ammettere la sconfitta, lasciarono che questi giocatori, che avevano già rappresentato un’altra nazione, entrassero sotto le categorie di ‘oriundo’ o ‘rimpatriato’. Erano spietati nell’inseguire la vittoria. Un giocatore, Luisito Monti, che giocò nella Coppa del Mondo del 1930 per l’Argentina, si trasferì in seguito in Italia, dove fu pagato moltissimo e fu ammesso nella nazionale. Alla fine, ciò che volevano era la vittoria. Non si preoccupavano molto sul come ottenerla e tramite chi. In definitiva volevano vincere, per fornire alla propaganda l’opportunità di esprimere in primis quanto era ben organizzato lo Stato fascista, poi, come stavano rigenerando non solo l’Italia, ma anche gli Italiani, e la vittoria ne era una prova. Ciò avvenne prima del 1938, naturalmente, prima dell’introduzione delle leggi razziali, sotto l’influenza della Germania nazista, ma anche allora fu fatto sotto minaccia”.
Vincere ha poco senso se non c’è pubblicità sufficiente e un messaggio chiaro dietro una vittoria. Il controllo fascista dei media in Italia assicurava che le vittorie fossero interpretate come una rivendicazione del regime. “La stampa, in questo momento storico, era soggiogata e sotto il controllo dello stato. Per quanto possa sembrar strano, i fascisti inizialmente erano un po’ diffidenti della radio, preoccupati del suo potenziale sovversivo. Ma ben presto crearono una compagnia nazionale di radiodiffusione, poi una rete, che ebbe molto successo tra gli ultimi anni ’20 ed i primi anni ’30. Non tutti potevano permettersi una radio, quindi le partite andavano assumendo il ruolo di evento importante per la collettività che abitava in città o in paese. Le radio erano nei bar o nei centri locali dopolavoro, e così si garantiva la presenza di molta gente in questi luoghi. Non si doveva per forza saper leggere e scrivere, e questo era un vantaggio. Divenne così un grande mezzo di comunicazione per il governo. Uno dei radiocronisti più famosi in quel tempo era Niccolò Carosio, che adattò o inventò un linguaggio suo personale, che calzava a pennello con il nazionalismo linguistico del regime. Di conseguenza, olte parole inglesi associate al gioco furono tradotte: referee divenne arbitro, corner kick divenne calcio d’angolo.
I media, in quel periodo, erano soprattutto i giornali. “La Gazzetta dello Sport fu probabilmente il quotidiano che funse da portavoce del regime. Dopo aver preso controllo sul Comitato Olimpico, prese piede un altro giornale chiamato Lo Sport Fascista, che, odio ammetterlo, scriveva di sport in modo intelligente e vario ma ovviamente con una forte inclinazione fascista. La Gazzetta era un vero portavoce del regime. Come la radio, destinata anche agli analfabeti, poiché poteva esser letta ad alta voce nel bar del posto e nei circoli, e quindi diffusa. La maggior parte di ciò che si scriveva era esattamente ciò che il regime voleva, ed era sempre più militaristico. Alla fine degli anni ’30, quando si arrivò alla Coppa del Mondo del 1938, i media descrissero l’evento come una vera e propria conquista militare in terra straniera.”
La stretta identificazione del Regime con il calcio italiano ebbe un effetto collaterale: le squadre e la nazionale erano considerate fasciste, quando giocavano all’estero in questo periodo. “Si trattava delle migliori squadre che giocavano nelle competizioni europee, oltre alla nazionale. Un esempio da citare è quando la nazionale andò in Francia per i Mondiali del 1938. È una questione controversa, perché allora non fu registrato nulla sui giornali, ma si narra che ci furono proteste antifasciste su larga scala in posti come Marsiglia, con i protestanti trattenuti dalla polizia a cavallo ecc. Sicuramente la nazionale veniva davvero vista come una rappresentante del regime. Anche al livello dei club, il Bologna era visto come una squadra molto fascista. Anche la Juventus d’altronde. C’è l’esempio della Juventus che andò a giocare in Cecoslovacchia, e i giocatori furono attaccati, i dignitari fascisti maltrattati, in quanto fascisti. È un caso abbastanza interessante, poiché in quel periodo la Cecoslovacchia era l’unica democrazia dell’Europa centrale, che veniva gradualmente circondata da stati fascisti di destra. Quindi questi erano forse un po’ suscettibili. Le squadre non rappresentavano il regime, ma erano davvero considerate come tali.”
Se è giusto asserire che dal 1926 in poi il calcio in Italia fu controllato ed usato dal regime fascista, cosa accadde dopo la sua caduta? Esiste un legame percettibile che connette il campionato attuale con le sue origini fasciste? “Penso che c’è una continuità di base, nel senso che la Serie A non è del tutto cambiata, in termini di organizzazione. Sono state apportate delle modifiche e dei cambiamenti, ma è rimasta essenzialmente la stessa. La continuità è abbastanza evidente, soprattutto nei primi anni della Repubblica, dato che non ci furono modifiche sostanziali. Furono riconfermati diversi presidenti dei club che erano stati fascisti locali, o per lo meno simpatizzanti del movimento fascista. Non si è mai parlato di rimuoverli da tale incarico. C’era un certo Ridolfi, capo dell’Associazione fascista a Firenze, che continuò ad essere il capo della Federazione Calcio fino a metà degli anni ’50. La Repubblica usò il gioco a suo favore in molti modi, naturalmente come farebbe qualsiasi governo, come fecero in fin dei conti i fascisti stessi. È un modo per unire l’Italia. In principio il calcio fu usato come distrazione per le persone dalla durezza del periodo post-bellico. Nella regione di Trieste, tanto contesa, era usato per affermare un’identità italiana in quella zona. Così, anche se la Triestina non era una squadra particolarmente forte in questo periodo, si trovò ripetutamente reinserita nella Serie A, sia nel periodo fascista che nel periodo della Repubblica. Questo fu un modo per riaffermare l’identità italiana della regione. Se Trieste era in Serie A, non si poteva di certo affermare che facesse parte della Yugoslavia.
Il ciclismo fu usato con lo stesso scopo, quando nel ’48 il Giro d’Italia passò in quella zona, e ci furono grandi manifestazioni italiane nella regione.”
La rottura tra fascismo e calcio fu invece sottile, ed era il riflesso delle trasformazioni che avvenivano nella società italiana. Si può risalire facilmente ad un momento simbolico. “Direi che la vera rottura tra il calcio fascista e la Repubblica risale al 1949 con i disastro aereo di Superga, nel quale morì tutta la squadra del Torino. Questo è il vero momento in cui avvenne la rottura definitiva tra il periodo fascista e quello repubblicano, e – sottolinea Martin – non fu alla fine della guerra. Segnò una rottura definitiva perché la squadra del Torino, che aveva vinto lo scudetto quattro volte consecutive, e l’avrebbe vinto anche quell’anno [gli fu consegnato il titolo dopo la morte], fu completamente eliminata. Vinsero il primo titolo nel 1943, ovviamente ancora sotto il regime fascista. Molti tra questi giocatori erano cresciuti ed erano stati, in un certo senso, creazioni del fascismo. Erano entrati nel sistema sportivo fascista. Rappresentavano tale sistema. Fornivano alla nazionale 9 giocatori su 11. Quando morirono, in un certo senso, morì un’intera generazione. Il calcio italiano soffrì di questa grave perdita per quasi 20 anni. Non solo per questo motivo, ma soprattutto per questo motivo. Ciò fece spazio ad un minimo di introspezione. Rispecchiava nel contempo l’esperienza nazionale. Dopo la guerra ci furono un paio di anni di festa nazionale, fino a quando la gente realizzò che era arrivato il momento di rimboccarsi le maniche e ricostruire l’Italia. Ogni genere di successo che segue coincide con il miracolo economico degli anni cinquanta. Il calcio riflette gli alti e bassi della storia moderna d’Italia”.
Simon Martin è tra i membri del Leverhulme Trust Fund presso la British School di Roma. Football and fascism ha vinto il premio letterario Lord Aberrare nel 2005 per la Storia dello sport.
Di Andrew Lawless, tradotto da: Tonia Salerno
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