Siamo tutti nel pallone: la simulazione di una battaglia

Roberto Rüegger da area del 23 luglio 2006

Siamo tutti nel pallone, io per primo mi ritrovo a sussultare davanti ad uno schermo per le gesta dei nostri maestri della pedata.Il gioco del calcio ha una lunga storia nella quale contraddizioni e contrapposizioni di ogni tipo, da quelle sociali a quelle tribali; da quelle nazionali a quelle politiche, passando da quelle economiche e giuridiche si incontrano si rappacificano, si conciliano e poi riesplodono senza sosta. Insomma si tratta in un certo senso, come per qualsiasi serissimo gioco che diverte gli umani, di una metafora della stessa umanità.
L'origine si perde nella notte dei tempi. Come ogni sport, il calcio non è altro che la simulazione di una battaglia o di una battuta di caccia in cui il giocatore ha la possibilità di affinare tutte le abilità necessarie per catturare una preda o per sopravvivere in guerra.

La cosa era sempre molto seria visto che ne dipendeva la sopravvivenza del singolo e della sua gente.
Una prima versione di gioco in cui una palla è presa a pedate emerge dalle brume della Cina circa un paio di secoli prima della nostra era: lo tsu-chu.
Greci e romani usavano i piedi, ma anche le mani, praticando la loro versione del calcio. I primi la chiamavano episkyros i secondi harpestum. I muri di Pompei, sommersi e conservati dalla lava del Vesuvio, ci tramandano segni inequivocabili della virulenza che reggeva la contrapposizione sportiva a quei tempi. Mecenate della squadra locale era Aulo Vettio, un imprenditore edile arricchitosi con le sue transazioni immobiliari e diventato mecenate di una squadra di harpestum. La squadra ripagava ampiamente gli sforzi del ricco mecenate cumulando successo su successo. Ad un certo punto Aulo decise di sfruttare la sua popolarità e di buttarsi in politica racimolando voti tra i sostenitori della propria squadra. (Ogni allusione a imprenditori ricchi, proprietari di una squadra, trasferitisi in politica in tempi più recenti è del tutto casuale…)
Nel 276 d. C., in Britannia, cioè nell'odierna Gran Bretagna, avvenne la prima partita documentata tra legionari romani (che in realtà provenivano da ogni parte dell'impero) e britanni.
La familiarità dei britanni con un gioco molto violento in cui le pedate non erano riservate solo alla palla e nel quale la stessa palla poteva essere sostituita con la testa mozzata di un nemico o di un sovrano detronizzato, permise loro di vincere agevolmente il confronto. Pare che sia proprio questo gioco brutale, detto hurling, il vero antenato del nostro calcio. Dopo un paio di millenni di macerazione, con l'aggiunta di regole chiare ed univoche e una robusta aggiustata alla modalità di gioco, rieccolo nelle vesti del football, trastullo sportivo dei giovani rampolli delle nobili famiglie inglesi.
Nato aristocratico il nuovo sport di squadra non tardò a diffondersi in tutti gli strati della popolazione diventando in tutto e per tutto popolare. Oggi il sogno di ogni bambino è quello di diventare un grande calciatore ricco e famoso.
Il calcio è il regno incontrastato del paradosso. È proprio questo che lo salva. Facciamo tutti il tifo per quello che, guardato con distacco, sarebbe l'ultimo rimasuglio di un nazionalismo insensato e stantio, ma poi diamo un'occhiata alla nostra nazionale e scopriamo un magnifico trionfo multietnico che parla di integrazione e di convivenza fruttuosa. Adoro il paradosso del calcio.