Non avevo mai avuto problemi con gli inquilini del palazzo in cui abitavo. Anzi, quasi non li conoscevo neppure. Solo una volta, avevo chiesto un floppy all'anziana signora che abita accanto a me, solitamente ne ho una buona scorta, ma quella sera li avevo finiti, ed era un'urgenza. Io tengo solo i dischi indispensabili e quindi mi seccava formattarli. La signora ne aveva parecchi e gentilmente me ne offri uno. Il giorno dopo le regalai, per ricambiare il favore, dei fiori e da quel giorno non ci parlammo neppure più.
Io non sentii mai il bisogno di legare con qualcun altro. Anzi, l'anonimato che mi offriva questo condominio era stato proprio quello che mi aveva convito al momento della firma del contratto. Se non fosse stato per l'indispensabile privacy che mi occorre, avrei di certo optato per qualcos'altro. Un villino sul mare, un condominio più vicino al centro città, che ne so? Ma in questo caso, l'obbrobrio di cemento armato, alto una trentina di piani e lungo quasi quattrocento metri, faceva proprio al caso mio.Ma non voglio tralasciare, e vogliano scusarmi se mi dilungo nella descrizione, l'orrenda parete tutta ricoperta di finestre che ricopriva il lato del biscione che dava verso la città. Capirete poi perché è così importante per comprendere quanto sto per dirvi: ogni piccolo appartamento che si trovava sul lato di vetro aveva una o più finestre, ma erano poco ambiti. Chi poteva permetterselo andava ad abitare al centro dell'edificio, dove non doveva subire neppure uno dei cancerogeni raggi che il sole proietta verso la terra.
Con il senno di poi, mi dico che avrei dovuto scegliere anch'io un abitacolo interno, e gongolarmi nell'innocua luce al neon senza preoccupazioni di sorta. Ma le mie finanze all'ora come adesso, non erano, per dirla con un eufemismo, troppo floride e decisi quindi di accontentarmi. La congiuntura non variò mai a mio favore e quindi avevo quasi abbandonato l'idea di andare a vivere più al centro. Anzi, ormai mi piaceva quasi seguire il movimento delle macchine che piccole come pixel, scorrevano sul nastro d'asfalto.
Insomma, trascorrevo la mia vita come tutti gli altri milioni di buoni cittadini che come me tirano a campare, fino a quando, lo scorso settembre, venne convocata l'assemblea degli inquilini. Avevo sempre snobbato queste formalità, le avevo sempre trovate un'inutile perdita di tempo. Ormai l'assemblea si riuniva solamente per discutere di cose futili come il colore del linoleum all'ingresso, o la sostituzione degli ascensori, le squadre di polizia interne, la manutenzione ordinaria e via dicendo. Ma sta di fatto che la sera dell'assemblea, io c'ero. Non eravamo in molti, forse un centinaio, al massimo duecento. Perlopiù, intuii da com'erano abbigliati i presenti la maggior parte provenivano dagli appartamenti centrali, tutta gente distinta e dalla buona posizione sociale ed economica. Mi sentivo un po' a disagio, e fu per quello che scelsi uno dei posti dell'ultima fila di sedie, che era completamente vuota.
L'unico tema all'ordine del giorno era la decisione di che tipo di decorazione comune del biscione si sarebbe allestita in occasione del prossimo Santo Natale. Da qualche anno nei nostri quartieri era di moda la tradizione di cercare di proporre una idea sempre più grande e innovativa ogni anno. Una tradizione a mio parere, signor Giudice, senz'altro nobilissima. Finalmente era possibile quantificare la nostra bontà ed ostentarla, in modo da spronare tutti ad essere più buoni. Come dimenticare il palazzo delle buone aziende, o con un termine che preferirei non utilizzare perché mi pare obsoleto e francamente brutto, delle multinazionali. L'anno scorso era addobbato in modo sfarzoso e magnifico, segnale eloquente del bene che avevano portato al pianeta. Noi naturalmente, perché non si faccia l'idea che fossimo degli immodesti, non puntavamo a tanto, ma ci tenevamo comunque a fare bella figura.
Furono scartate subito le proposte più banali come quella del grande albero di natale o dell'angelo che abbracciava l'intero palazzo. Si scartarono invece per motivi economici altre idee, che secondo me erano semplicemente geniali, come la finta neve di pvc o l'insediamento di un branco di renne in grandi gabbie sul tetto del palazzo. Si optò, grazie al convincente discorso di un vecchio signore che ricordò come anticamente il Natale fosse una festa dedicata alla luce, per un messaggio di pace e speranza rivolto al mondo intero. Fino a qui, nulla di male. Credo che la pace sia una delle trenta cose più importanti della vita e che quindi meritasse di certo di apparire sulla facciata del nostro palazzo. Avrebbe forse disturbato un pochino il magnate delle armi che possedeva una piccola quota azionaria del palazzo ma non ci facciamo mica impaurire da queste piccolezze. Per sicurezza scegliemmo comunque uno slogan abbastanza rassicurante e non troppo provocante: "la guerra non è la soluzione migliore migliore".
Ma il problema vero e proprio, ed è qui che Signor Giudice e Signori della Giuria voglio arrivare, fu il metodo che si scelse per ostentare questo segno della nostra sicura bontà. L'avremmo scritto con le luci (perché di festa della luce si trattava) dei nostri appartamenti. Le finestre illuminate di alcuni appartamenti avrebbero scritto il gigantesco concept. Tutte le altre stanze sarebbero dovute rimanere spente.
Detta così, sembra una bellissima idea, e fu per questo che anch'io votai la proposta. Ma non mi accorsi dello sbaglio che stavo commettendo. La stanza della mia finestra, che come ricorderete era abbastanza in alto partecipava alla formazione della parte alta della "elle" di "soluzione" e quindi io avrei dovuto vivere con la luce accesa ininterrottamente per tre mesi consecutivi, da ottobre a gennaio.
E così fu! Gli abitanti che come me, possedevano una finestra, e quindi direttamente coinvolti, si videro arrivare in casa un tecnico che mise i sigilli agli interruttori, tenendo l'illuminazione accesa o spenta a seconda di quello che stava scritto su di una lunga lista. Costava si qualche sacrificio, ma l'effetto era notevole e così per i primi giorni resistetti. Il mio lavoro mi porta a restare prevalentemente in casa e tutta quella luce mi scombussolava parecchio, non riuscivo a dormire che un paio di ore per notte e stavo diventando sempre più nervoso. A metà ottobre il dottore mi aveva già raddoppiato il numero di pillole e pastiglie che dovevo assumere rispetto a prima delle festività. Verso il 20 venni licenziato. Nella prima settimana di novembre, avevo perso già diversi chili, chiesi udienza con l'amministratore del mio piano. Mi accordo un appuntamento per il diciotto ottobre. Esposi i miei dissensi ma lui mi disse che non dovevo farci troppo caso. Mi disse che dovevamo fare tutti assieme un piccolo sforzo per il lustro dell'intera comunità. Un piccolo impegno per un grande risultato. Ma per lui era facile parlare, abitava in un appartamento interno, aveva l'arbitrio sui suoi regolatori di luminosità. Ma poi mi mostro una foto del palazzo, la vista di un opera così luminosa ed imponente, mi aiutò ad accettare il mio stato di iperilluminato. Alla fine del mese venne a suonare da me una signora che chiese se poteva mandare a studiare da me suo figlio, che abitava in un'appartamento sempre buio. La mandai a quel paese: cosa gli era saltato in mente a quella senza cervello. Ci mancherebbe pure che ci mettessimo a scambiarci casa l'un l'altro. Se occorreva un sacrificio esso doveva essere distribuito fra tutti noi, e quindi che si cavasse pure gli occhi per lo sforzo quel lurido marmocchietto. Mi scusi Signor Giudice se ho usato un tono di voce troppo alto, ma quando mi tornano in mente quegli assurdi concetti tipo collaborazione o autoaiuto mi viene il latte alle ginocchia! Verso San Nicolao ero ridotto ad uno straccio, stavo tutta la giornata e tutta la notte a fissare i 220 vatt della lampada che illuminava la mia stanza senza aver la forza di reagire e fu in quello stato che la notte di Natale acconsentii a fare quello che allora credevo che andasse fatto.
Oggi ho capito di aver sbagliato e di essermi comportato male e voglio chiedere scusa. So che questo non riporterà alla vita le centinaia di vittime perite per l'esplosione e neppure quelle schiacciate dalla folla in panico, nemmeno quelle soffocate dal fumo e a chi è morto a causa del crollo. Non ridarà una mamma ai bambini rimasti orfani, non sanerà i danni psicologici e non chiuderà le ferite. Sono stato un egoista, ho messo il mio interesse personale davanti a quello della collettività e me ne scuso. Ma so che mi perdonerete anche perché si dimentica in fretta e oggi sulle rovine del biscione già si sta costruendo un centro commerciale.