Quella della precarizzazione e del modo in cui molti laboratori protetti per disabili si procurano i lavori, può sembrare una questione “tecnica”, ma mi sembra importante come osservazione dell’operato di un’istituzione sociale all’interno del mondo in cui la circonda. Il mondo lavorativo esterno si sta precarizzando o, più elegantemente: flessibilizzando. La preoccupante situazione sta iniziando ad essere analizzata da esperti ed economisti1 e i risultati mostrano quasi sempre che la precarizzazione porta disagio, insicurezza2 e malessere ai lavoratori mentre porta consistenti benefici economici alla classe padronale.
Quasi tutti i laboratori protetti si iscrivono in maniera perfetta in questa nuova ottica, funge in qualche modo da “filtro” o da cuscinetto protettivo. Un laboratorio che cerca di consolidare la precarietà: ovvero offrire agli utenti-lavoratori un certo margine di sicurezza (contratto a tempo indeterminato, salario fisso non legato alla produzione, orari e ritmi personalizzabili secondo i bisogni). Sfrutta però uno dei meccanismi della precarizzazione del lavoro e della globalizzazione: l’esternalizzazione di parte della produzione.
Così come la Nike fa cucire i suoi palloni ai bambini pachistani3 traendone beneficio economico anche molte aziende ticinesi “esternalizzano” alcuni lavori ai laboratori protetti per un beneficio monetario, i principali vantaggi per le aziende sono:
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Rientro d’immagine: l’azienda, dando lavoro a persone disabili, si crea un’immagine “etica, solidale e responsabile”
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Risparmio sulle spese sociali: le aziende non devono assumere dipendenti supplementari ma possono contare su manodopera solo nei momenti in cui ne hanno veramente bisogno. Possono così far fronte a picchi di produzione senza dover stipendiare personale nei momenti inoperativi. Non deve pagare gli oneri sociali e le spese di formazione di questo personale perché esso è assunto dal Laboratorio
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Risparmio sulle spese di produzioni: le aziende non devono occuparsi dell’affitto o dell’acquisto degli stabili in cui stoccare il materiale e in cui far lavorare il personale (o quantomeno lo possono ridurre). Anche tutte le spese di produzione (utensili, mobilio, materiali di consumo, riscaldamento ed elettricità sono a carico del Laboratorio.
Detto in maniera elegante le aziende “snelliscono la produzione”, obbligano i lavoratori ad assumersi tutti i disagi causati dalla precarizzazione tenendo per se soltanto i lati più redditizi ed appetibili. A ben vedere si tratta di un meccanismo perverso: ci accorgiamo che la precarizzazione danneggia i lavoratori e allora creiamo delle misure “tampone” per poter sfruttare la forza lavoro anche dei più deboli (che altrimenti non potrebbero partecipare al circuito economico) senza però intervenire sulle cause che scatenano questo processo.
Molti laboratori e addirittura diverse fondazioni continuano ad esistere proprio perché la loro innegabile attività “benefica” riferita alle singole persone, non si contrappone e non mette in discussione la realtà neoliberista esterna. Non si tratta di istituzione che si schierano contro le cause del malessere della gente, ma si limitano a “tamponarle”. Non rimettono in discussione più nulla. Non fanno più paura a nessuno. A volte diventano partner commerciale diaziende multinazionali con cui collaborano regolarmente. In qualche modo giustificano e rende quindi accettabile l’esistenza di questi meccanismi necrofili.
1 Cfr: Lepori A. Marazzi C, Forme di lavoro e qualità di vita in Ticino, Inchiesta sugli effetti sociali della flessibilità del mercato del lavoro in Ticino, DSS, SUPSI, 2002
2Secondo uno studio dell’Ufficio federale di Statistica, sulla base d’alcuni risultati dell’inchiesta nazionale sulla salute condotta nel 2002 “L’intensificazione del lavoro ha come corollario conseguenze psichiche e psicosociali elevate sui lavoratori”. Il 44% dei lavoratori afferma di occupare un posto di lavoro “nel quale la tensione è generalmente molto forte”. Con l’aumentare della precarizzazione non può che aumentare anche il sentimento d’insicurezza, inevitabile visto che queste nuove forme di lavoro tendono a riversare tutti i “rischi” sul lavoratore eliminando progressivamente i diritti e le assicurazioni che potevano fungere da “cuscinetto protettivo”. I ritmi di lavoro sono sempre più frenetici e pressanti, nei processi lavorativi vi sono sempre meno tempi morti. Il lavoratore è assunto per l’esatto tempo necessario a svolgere un compito, l’azienda può assumere personale, quando vi è più lavoro e licenziarlo quando ce n’è meno in modo da non dover stipendiare personale “improduttivo”.
Il lavoratore precario non può più disporre di un luogo di lavoro fisso che con il tempo può divenire famigliare, non può stringere relazioni durevoli con i colleghi, non possiede più quegli elementi rassicuranti di “personalizzazione” del luogo di lavoro (la mia scrivania, il mio armadietto) ma è continuamente spostato da un luogo all’altro, sradicato, senza sicurezza e senza una memoria ambientale o un’identità professionale.
Da: Cerri Olmo, Sfruttamento flessibile: come i bisogni dell'economia possono prevaricare i diritti dei lavoratori, Supsi DSAS, Elaborato del seminario di Socioeconomia, febbraio 2005
3 Nike e sfruttamento del lavoro minorile: http://www.tmcrew.org/csa/l38/multi/nike.htm