Scivolo nella tarda serata di un giovedì qualsiasi di un flaccido agosto, tassi di ozono e di polveri fini alle stelle. La radio invita chi è rimasto in città a non uscire di casa nelle ore più calde. Il turco che vende kebab all'angolo dell'università è impegnato in un'animata discussione con un ragazzo biondo forse un po' ubriaco, convinto che a Rimini la gente sia molto più aperta e cordiale. L'attenta analisi sociologia del biondo, è stata ispirata dall'essersi riuscito a slinguare una villeggiante nordica lo scorso agosto sulla riviera romagnola. Il turco, che si sente già abbastanza integrato da sentirsi in dovere di difendere l'onore patrio, risponde con salomonica saggezza che, secondo lui, di stronzi ce ne sono da tutte le parti. Anche perché non ho una precisa opinione sull'argomento evito di entrare in discussione e chiedo un falaffel, cercando di scandire bene le parole, nonostante l'incertezza della sillaba su cui far cadere l'accento. Quello all'angolo dell'università è l'unico chiosco che non aderisce al cartello dei kebabbari che si sono accordati per tenere i prezzi alle stelle e spartirsi i profitti generati dalla fame chimica notturna. Prende cinque dischetti di pasta di ceci dal congelatore a cassapanca dietro al bancone. Il biondo non smette di parlare e di sparare scontatezze accennando alla sua più unica che rara avventura erotica estiva.
I dischetti congelati vengono sbattuti sul piatto rotante del forno a microonde e tintinnano come monete, mentre il turco estrae da un sacchetto di plastica la focaccia di pane non lievitato in cui schiaffa cipolle, frammenti di insalata e spruzzi abbondanti di una salsa liquida e bianca estratta da un barattolo di plastica opaca. Quando il campanello del forno segnala che i dischetti vegetali hanno ricevuto una sufficiente dose d'irradiazione, il turco li prende e li posa sul letto di insalata che ora pare un prato che ha beneficiato di una generosa scarica diarroica di una vacca nutritasi di yogurt. Arrotola il tutto e lo avvolge con un foglio di carta stagnola, che evita alla salsa di riversarsi per terra e sopra alle mie gambe ma che andrà ad alimentare l'intossicazione da alluminio diagnosticatami tre anni fa da una dottoressa che indugiava in strane pratiche partendo da ciocche di capelli.
Pago estraendo le monete dalla tasca con una mano sola, mentre con l'altra afferro quel salsicciotto unto e bollente che costituisce ormai parte integrante della mia dieta. Il turco mi da il resto e mi chiede se ho la tessera. Probabilmente capisce dalla mia espressione stupita che non ho la tessera e che non so nemmeno di che costa stia parlando. Non capisce però che nemmeno mi interessa conoscerne i particolari. Cerco di guadagnare l'uscita il più in fretta possibile anche perché la cagna che ho legato all'idrante prima di entrare, inizia a dare segni d'insofferenza. Il biondo, ora che sto per uscire e ho la bocca piena di ceci e salsa sintetica, ritiene che questo sia il momento più opportuno per entrare in relazione con me e mi chiede se ho una ventella di erba da lasciargli. Gli dico che non ho nulla, ma anche se ne avessi mai gliela darei, non mi piace per nulla quel tipo. Gli indico il bar con ambizioni alternative distante poche centinaia di metri, davanti al quale stazionano praticamente stabili due pusher. Mi metto a camminare lungo il fiume malamente incanalato, godendo del fresco che l'acqua riesce a veicolare fin nel centro della città.
Imbocco l'unico tratto di strada non asfaltato e senza lampioni rimasto. Un gruppo di persone blocca il passaggio, uno di loro mi riconosce e mi saluta. Siamo stati a scuola assieme per quattro anni, poi lui ha proseguito il suo percorso da figlio di migranti in un paese ostile e poco ospitale. -Sostituisco mio padre in cantiere quando non ce la fa– mi racconta. Non ci siamo quasi più visti e non mi sono praticamente mai più ricordato di lui. Vorrei chiedergli come sta, ma mi pare una domanda ancor meno adatta a quel luogo e a quel momento. Sono una dozzina, sono giovanissimi, balcanici, serbi, croati e albanesi. Si ritrovano in quest'isola libera cittadina a fumare canne di erba pesantissima cresciuta sotto lampade che imitano la luce solare e con fertilizzanti, ormoni e altre chimicate. Bevono birra e litigano. M. diventerà padre, si è dovuto sposare per placare gli animi delle famiglie, ma non pare particolarmente toccato dalla questione quando me lo racconta mentre piscia nel fiume incanalato e usato ormai solo per raccogliere le acque luride grossolanamente risciacquate da depuratori attaccati, senza troppa convinzione, alle condotte fognarie.
Già da lontano capisco che la donna che mi si avvicina ha intenzione di rivolgermi la parola, pare che basti il solo fatto di portare un cane al guinzaglio per renderla partecipe ad una chissà quale intimità che le permette di vincere la normale e più che giustificata diffidenza. Inizia già da lontano ad urlarmi “maschio o femmina?”, come se ciò potesse modificare in qualche modo le dinamiche socializzatorie di quei pochi etti di barboncino tosato che si porta appresso appeso al guinzaglio. “Femmina, ma lesbica” rispondo, dopo aver valutato per qualche istante l'ipotesi di far finta di non aver sentito. Come un allocco abbocco all'amo lanciato dalla loquace passeggiatrice di canidi con il pedigrì, la mia risposta è sufficiente a scatenare una sua pronta controreazione. “Il mio è un maschio, ma castrato, sembra una femmina”. Continuando a bearmi dell'ignoranza concessami dal non riuscire a distinguere il sesso dei cani, rispondo senza troppa convinzione “signora, i testicoli sono importanti” sperando che ciò basta a troncare ogni ulteriore tentativo di conversazione. Intanto la mia cagna ha iniziato ad annusare quel che resta dell'apparato riproduttivo del botolo della donna in vena di socializzazione notturna. “Il mio si chiama Nemo” afferma, “come il pesce”, si sente in obbligo di precisare, quando, dopo qualche istante, coglie l'assenza della mia risposta. Nulla potrebbe mai fregarmene del nome che quella donna ha voluto assegnare al suo cane e di quale idea perversa possa averla spinto a chiamare anche il pesce nello stesso modo. Spero solo che la mia cagna smetta presto di investigare il deretano di quel botolo cosicché noi si possa riprendere la strada verso casa e allontanarci dalla fastidiosa interazione. “E la sua? La sua come si chiama?”. “Maia, si chiama”, rispondo quando capisco di non avere alternative e di non avere ulteriori energie da spendere in risposte acide. “Come l'ape?” chiede divertita. “Vieni Maia, andiamo” strappo la mia cagna dall'attività in cui è immersa e la trascino verso casa, augurandomi di non incontrare più nessuno.
Lungo il tratto di strada senza marciapiede le auto mi sfrecciano accanto arroganti e sfacciate. Zaffate di monossido di carbonio trovano facilmente spazi in cui intrufolarsi nei miei bronchi dilatati dallo sforzo del camminare a passo spedito. È troppo facile muoversi in automobile, è da codardi. Protetti dalle proprie corazze di alluminio anodizzato gli automobilisti se ne sbattono delle conseguenze che provocano: inquinamento e rumore. Ma anche la rarefazione dei trasporti pubblici, e l'assenza di collegamenti con i luoghi più discosti, la corsa al petrolio, le guerre e atrocità di ogni tipo. L'asfaltamento di ettari di terreno per farci nuove strade, la perforazione delle montagne, l'intasamento delle città, la trasformazione di ogni area verde in parcheggio. Saranno per sempre coinvolti gli automobilisti, e un giorno la pagheranno! E dovranno avere sulla coscienza i polmoni invasi dal cancro di C., il cranio spappolato della piccola L. investita sulle strisce pedonali, gli uomini torturati nelle prigioni americane e il cervo lasciato morente sul bordo della strada. E poi se la prendono con i lupi. I lupi sono loro, assetati di rapidità e inebriati dagli effluvi di un arbremagique al cocco. Tutto subito, tutto è dovuto. Odio gli automobilisti, mi fanno schifo, non si rendono conto della fatica che a volte si fa ad andare a piedi, quando il bello di passeggiare sotto le stelle non basta a controbilanciare il freddo, la stanchezza e la voglia di essere a casa. Li odio quando piove ed io faccio autostop e loro non si fermano per evitare di infangare i tappetini sintetici dei loro veicoli immorali. Il petrolio teniamocelo per infuocare le clave dei giocolieri e da far sputare ai mangiafuoco. Darei volentieri fuoco alle automobili parcheggiate ordinatamente dentro alla linea blu, se non sapessi che il fumo sprigionato dalla combustione della gomma inquinerebbe forse di più di quanto non fa un veicolo in movimento. Taglierei volentieri le gomme di quel gippone da una tonnellata che viene utilizzato per portare in giro i nemmeno settanta chili di carne umana di quel liceale cresciuto in una società che non ha saputo dargli rito di passaggio migliore dell'esame della patente. Ma distruggere automobili non fa che far crescere il pil, sono gli automobilisti il giusto obbiettivo. Un'auto distrutta si ricompra, un automobilista convertito alla bicicletta è un passo verso un mondo migliore. Un automobilista morto è una via di mezzo per nulla disprezzabile.
“Hai smesso di bruciare petrolio bastardo”, penso sentendomi un po' come il cattivo dei film mentre striscio fuori da sotto all'automobile in cui ho piazzato la microcarica. Non sono mai riuscito a riconoscere le marche delle automobili. Questa è grigia, come la maggior parte delle automobili in circolazione e ha il cofano che pare sciolto per il troppo calore. Spero solo che la carica funzioni, ho trovato il piano per costruire l'innesco in internet, su di un sito di neofascisti americani. Ho capito le istruzioni grazie al traduttore automatico di google. Ho comportato le componenti necessario nel nuovo gigantesco negozio di bricolage che per farsi pubblicità mi ha mandato a casa gratuitamente un guanto da giardinaggio e che io ho utilizzato per non lasciare impronte digitali nei dintorni dell'automobile. Quello che mancava lo ho comperato per pochi dollari su e-bay con la carta di credito dei miei genitori e mi è arrivato a casa in pacco anonimo. Costruire una bomba è molto più facile di quanto si possa immaginare, chiunque abbia minime conoscenze di elettronica lo può fare. È sicuramente più difficile preparare una buona besciamelle, costruire un rapporto di coppia durevole o essere coerenti con i propri ideali. A fare una bomba non ci vuole niente. Mi auguro che l'auto non appartenga a nessuno che conosco o a una famiglia con bambini ma, d'altra parte, se la sono cercata. Spero solo che la telecamera a lampioncino posta sopra al semaforo non sia puntata verso di me, il vetro scuro non lascia intuire la direzione. Mi sposto in un bar a poche centinaia di metri, lego la cagna ad un lampione, chiedo alla barista sudamericana se posso avere un ghiacciolo e mi reco verso il bagno, la turca è lurida. Cerco di direzionare il getto di urina contro un grosso grumo di carta da cesso, tentando di appesantirlo e di dirigerlo verso il buco in cui presto va a finire. In fondo ci vuole così poco a contribuire al benessere generale. Tiro lo sciacquone, apro il rubinetto e mi lavo le mani, lascio aperto il rubinetto per evitare di dover ritoccare la manopola tastata da centinaia di mani di clienti che hanno appena terminato di defecare. Guidano auto con l'aria condizionata in grado di filtrare ogni particella di polline e di polveri medie, ma poi toccano, dopo essersi lavati le mani la medesima rondella d'acciaio che hanno toccato pochi istanti prima con le mani cariche di stafilococchi. Esco spingendo la porta con il piede, mi dirigo verso il congelatore, cincisco un po' fino a quando la barista mi dice di muovermi a scegliere il gelato. Allora faccio lo scazzato, sbatto lo sportello e me ne vado bofonchiando improperi. Spero di non essermi fatto notare troppo, quando si sta commettendo un attentato vale la pena essere guardinghi, non vorrei farmi prendere per una stupidata del genere. Riprendo la cagna, la bomba non è ancora esplosa e non si vede in giro nessuno, mi allontano a passi lunghi verso casa finalmente.
Ho elaborato una mia personale teoria su come fare a camminare velocemente. La retta è per chi ha fretta. Giovanni Lindo Ferretti ha spesso ragione. L'importante è non perdersi in inutili curve e zigzagamenti ma camminare seguendo una immaginaria linea perfettamente diritta. Non è solo una metafora: occorre guardare in direzione dell'obbiettivo a cui si punta e determinare qual'è il punto più distante che sia possibile raggiungere senza incontrare ostacoli nel mezzo. A volte sono solo pochi metri, nelle curve strette il punto più distante può essere a soli pochi centimetri, vale quindi la pena di camminare rasenti al muro all'interno della curva, a volte invece è possibile tracciare delle immaginarie linee lunghe anche parecchie centinaia di metri. Ciò permette di risparmiare decine e decine di passi, è come quando per attraversare un campo da calcio da un angolo all'altro si percorre la diagonale del campo invece di seguire il perimetro esterno. I sentieri, quando la morfologia del terreno lo permette, seguono più o meno questa logica. I marciapiedi invece, che seguono le esigenze di urbanisti e di palazzinari che li accostano alle strade, non tengono per nulla conto delle necessità dei camminatori. Le strade sono fatte per le automobili, i pedoni sono sono fastidiosi effetti collaterali. Le città sono per gli automobilisti: è più facile trovare parcheggi che fontane, ci sono molti più autosili che posti al coperto per dormire. I migranti sono costretti a starsene fuori dai centri d'accoglienza mentre le automobili, riposano protette nei mostri di cemento armato che spuntano nei quartieri popolari e sotto al parco pubblico.
A casa mi sento un po' in colpa, non sono sicuro di aver agito bene, non sono del tutto in pace con la mia coscienza. Penso che avrei potuto chiudere il rubinetto utilizzando un pezzo di carta invece di lasciare scorrere il getto d'acqua. Chissà quanti litri d'acqua hanno dovuto scorrere prima che qualcuno non se ne è accorto e ha chiuso il rubinetto. Che spreco: chissà quanta energia servita a depurare quell'acqua ho utilizzato arbitrariamente. Anche se non mi è mai stato del tutto chiaro come potesse essere che non dovevo sprecare acqua perché c'era chi moriva di sete. L'acqua che non uso io va nel fiume, nessuno si sogna di riempire autobotti e portarle nel deserto per dissetare bambini beduini.