La follia del lavoro come strumento d’integrazione

Uno stralcio dell'elaborato su lavoro e integrazione nel quartiere di Pregassona Bassa (SUPSI DSAS, 2005)

 Nella società occidentale, ed in particolare a partire dalla seconda metà del Novecento, il lavoro è intimamente connesso all'essere, alla morale e all'immagine di sé dell'individuo.[1]

Con il lavoro ci presentiamo, mostriamo agli altri dove siamo socialmente posizionati e diamo un senso al nostro stare al mondo “(…) il lavoro ha raggiunto una tale onnipotenza che in realtà non esiste più alcun concetto opposto al lavoro. Una società senza lavoro appare come una società senza centro[2]. Il lavoro quindi, non più solo come strumento per procurarsi le risorse necessarie alla sopravvivenza ma anche (e soprattutto) produttore di senso del proprio stare al mondo e di rapportarsi all'altro. Nella nostra società il lavoro è un bisogno umano centrale, soddisfa i bisogni finanziari, organizza e struttura il tempo, favorisce i contatti interpersonali, permette di condividere esperienze con gli altri e produce obbiettivi esterni da perseguire, insomma contribuisce allo sviluppo di un'identità personale.

La posizione lavorativa diventa una parte fondamentale nell’attribuzione dello status di un individuo, mettendo a volte in secondo piano le sue conoscenze culturali o altri aspetti caratterizzanti del singolo. La sua posizione nella stratificazione sociale sarà più alta se l’importanza del suo lavoro è maggiore di conseguenza, un impiego di tipo modesto, non favorirà sicuramente la crescita di una positiva immagine di se.

Ogni status comporta numerosi ruoli, cioè l'insieme dei modelli di comportamento attesi, degli obblighi e dei privilegi in una determinata società[3]. Essendo lo status, molto influenzato soprattutto dalla posizione lavorativa anche il ruolo ne sarà influenzato facendo sì che chi non ha un posto di lavoro si senta emarginato, e senza una posizione nella società. Se la sicurezza del posto di lavoro manca, sarà difficile anche confrontarsi e comportarsi in maniera “accettabile” agli occhi degli altri, soprattutto di chi, si è fatto sostenitore di questa dinamica perversa, siano essi stranieri o svizzeri. L’assenza di sicurezza lavorativa crea tutta una serie di disagi legati ad altre sfere personali.

 “Per la salute mentale il lavoro deve avere un senso, cioè deve essere vissuto come gratificante, rispondente ai propri bisogni e ben accettato”[4] ma nei casi, sempre più frequenti nella società postfordista, in cui il lavoro diventa precario, sottopagato, su chiamata (tramite agenzia), emerge in maniera preponderante la sua dimensione patologica. Non più strumento di integrazione ma creatore di disagio. Le gratificazioni e la risposta ai bisogni fondamentali del lavoratore sono messi in secondo piano, lasciando il lavoratore precario solo davanti all’insicurezza, alle angosce e al panico.  I lavoratori, sempre più spesso sviluppano “una condizione interiore d’incertezza e di paura per il futuro, dovuta probabilmente alla trasformazione che la società sta vivendo nel percorso da modello industriale locale a quello post-industriale-planetario.[5] Da questo ne deriva un’elevata vulnerabilità nei confronti di malattie fisiche e psichiche, ad esempio depressioni, disturbi somatoformi, dolori cronici, come è stato il caso di Kasikkirimaz Hursit (vedi allegato 3).

E’ stato svolto uno studio[6] in cui si dimostra che il ricorso alle cure psichiatriche è aumentato di pari passo con la precariazzazione del lavoro. Quest’aumento si ritrova maggiormente tra la popolazione giovane (110% fra il 1991 e il 1996). Durante il medesimo periodo le ospedalizzazioni psichiatriche sono aumentate dall’8 al 10%, delle quali in 15% dei casi era dovuto a motivazioni legate all’ambito del lavoro e della formazione. Soprattutto nelle classi sociali meno abbienti la paura di perdere il lavoro è molto alta.

È possibile ricondurre i mutamenti in ambito lavorativo con il cambiamento di paradigma nella nostra società. “Con gli arrivi di massa del periodo post- bellico l’immigrazione diventa strutturale cioè legata allo sviluppo dell’industria e del turismo. In questo modo l’integrazione avviene principalmente attraverso il lavoro (mansioni rifiutate dai lavoratori svizzeri, pesanti, non qualificate)[7] Il nuovo modo di produrre, dopo la crisi del modello postfordista fa accrescere la mobilità dei lavoratori e la disoccupazione. Vi è una forte terziarizzazione e cognitivizzazione del lavoro. Statisticamente si assiste ad una minor possibilità di attività per la popolazione migrante (si spostano non più solo le fasce attive della popolazione, ma le intere famiglie).

I mutamenti del mercato del lavoro, i quali influenzano negativamente l’integrazione di chi arriva nel nostro paese, non sono dettati dal caso, ma fanno parte di strategie manageriali precise, volute con lo scopo di diminuire il costo della manodopera, eliminare i diritti dei lavoratori e di far ricadere su altri attori sociali tutte le esternalità negative con lo scopo di spendere il meno possibile[8]. Il lavoro “in nero”, spesso ma non sempre, é legato alla condizione di clandestinità, a cui molte persone sono costrette, impedisce anche quella minima possibilità di tutela che i lavoratori legali hanno.

Altro fattore disgregante del lavoro è dato dalla sempre più alta percentuale di lavoratori poveri[9] (o working poor), ovvero tutte quelle persone che pur lavorando, non riescono a provvedere al sostentamento del proprio nucleo famigliare, a causa dei salari troppo bassi. I dati 2003 sulla base della rilevazione sulle forze lavoro in Ticino (RIFOS), sono inquietanti: circa 12.500 lavoratori poveri per un tasso pari a oltre il 10%. La media del nostro cantone è nettamente più alta rispetto ai dati sull’intera confederazione. Particolarmente colpiti da questo fenomeno sono naturalmente i lavoratori stranieri (18,6%) rispetto ad una media per i cittadini elvetici del 6,9%. Uno straniero che lavora avrà quindi statisticamente parlando una possibilità doppia di rientrare nella categoria dei woorking poor. L’ufficio federale di statistica ipotizza che questa differenza di reddito sia legata a livelli di reddito mediamente più bassi, percorsi formativi più modesti o meno riconosciuti e composizioni famigliari differenti (famiglie allargate che contano su di un solo reddito). Nella nostra terza intervista emergono alcuni fattori che confermano queste ipotesi.

Un altro esempio di questi lavoratori “esclusi” ci è stata fornita da Leggeri[10], citando la comunità Tamil, che definisce “praticamente invisibile”. Molte di queste persone svolgono lavori di “retroguardia” nelle cucine dei ristoranti e degli alberghi con personale quasi esclusivamente composto di persone dalla medesima provenienza e senza nessun contatto con il resto del personale. Anche i ritmi di lavoro molto elevati (necessari a guadagnare un reddito sufficiente ad inviare un contributo finanziario ai parenti rimasti in patria) contribuisce a non lasciare altre energie investibili in attività d’integrazione: lavoratori segregati!


[1] Beck U, I rischi della libertà. L'individuo nell'epoca della globalizzazione, Edizioni il Mulino, 2000

[2] Op. cit: Tomamichel Michele

[3] Lo status identifica la posizione di un individuo nei confronti di altri soggetti nell'ambito di una comunità organizzata. Le norme sociali di attribuzione dello status dipendono dal gruppo sociale e possono essere molto variegate: possesso di beni materiali (auto, vestiti, accessori, denaro, ecc…) posizione lavorativa, conoscenze culturali, posizioni di potere, ecc… Queste disuguaglianze generano quella che viene chiamata la stratificazione sociale.

Da: appunti del modulo “La dimensione sociale dell’azione” P.Solcà, SUPSI DSAS 2004/05

[4] Op. cit: Tomamichel Michele

[5] Op. cit: Tomamichel Michele

[6] Dayer, Ginevra 2000 (Op. cit: Tomamichel Michele)

[7] Dagli appunti del modulo “multiculturalità e integrazione”, G. Galli, P.Solcà, 2005-2006

[8] “(…) si sta passando da un regime in cui sul mercato del lavoro di diritti sociali dei lavoratori avevano una validità per così dire universale (nella forma, ad esempio, dei contratti collettivi), protetti da norme giuridiche solide e durature, ad un regime in cui i diritti dei lavoratori sembrano gradualmente svanire sotto l’incalzare delle esigenze e delle contingenze economiche.”

    Da: Marazzi Christian, Il posto dei calzini, Casagrande, Bellinzona, 1995

[9] Cfr: Pedrozzi Davide, Nuove forme di povertà, i working poor ticinesi nel 2003, Dati-2, Ustat, 2005

[10] Cfr: l’intervista ad Alberto Leggeri (allegato 1)