Lavoro e disintegrazione sociale

Uno stralcio dell'elaborato su lavoro e integrazione nel quartiere di Pregassona Bassa (Luppi, Cerri, SUPSI DSAS, 2005)

Per quanto riguarda il tema del “lavoro come mezzo di integrazione” possiamo dire di esserci fatti un’opinione abbastanza precisa. Nella maggior parte del materiale distribuitoci durante il modulo, il lavoro era descritto da vari personaggi come uno degli elementi essenziali all’integrazione. Quello che abbiamo potuto constatare è che questa idea non corrisponde più alle nuove tendenze della società postfordista. Anche in Svizzera, durante gli anni di boom economico, la manodopera straniera, quella degli immigrati (perlopiù di origine europea), era richiesta e assimilata dall’industria. I lavoratori che si spostavano rispondevano ad un preciso bisogno dell’economia del tempo erano i cosiddetti "Gastarbeiter". La politica adottata era piuttosto di tipo universalista, era più facile per un lavoratore fruire di tutta una serie di diritti.

Nella fase più recente, dagli anni ’90 in particolare, l’immigrazione ha subito uno sdoppiamento. Se da una parte la libera circolazione ha consentito una maggior entrata legale di lavoratori europei, dall’altra ha creato una situazione emergenziale, soprattutto per quanto riguarda le richieste di asilo politico. La situazione geopolitica globale ha creato tutta una nuova serie di migranti.

La politica adottata diviene di tipo differenzialista: esistono stranieri di serie A e di serie B.

Una classe politica legata alla destra xenofoba, capitanata dal milionario Blocher[1], rende l’arrivo e la permanenza in svizzera di stranieri, sempre più difficile. Aumentano le persone che si muovono quindi in un ambito di illegalità e ciò non contribuisce ad un ottimale processo di integrazione.

I sentimenti sempre più presenti d’insicurezza e precarietà, generati dal sistema postfordista, fanno sì che vi sia una sempre maggior competizione la quale porta a tutta una serie di componenti negative. Il mercato del lavoro ha assimilato concetti quali la flessibilità e la precarietà, creando una situazione connotata dalla totale mancanza di sicurezze e di stabilità lavorativa. Se già per i cittadini svizzeri i nuovi modi di produrre e di lavorare non facilitano le relazioni sociali e la solidarietà  causando tutta una serie di problematiche legate alla sfera psicosomatica[2], per la popolazione straniera questi fattori negativi sono portati all’eccesso e amplificati. “Al lavoratore straniero si richiede un coinvolgimento totalizzante e si pretende che per loro il lavoro sia tutto, addirittura il vincolo che legittima la loro presenza sul territorio.[3]
 Lo sfrenato individualismo necessario a barcamenarsi in questo sistema, nel caso degli stranieri, può trasformarsi facilmente in segregazione. Costretti a svolgere tutti i compiti meno ambiti e più nascosti, a lavorare nelle cucine degli alberghi, oppure a pulire le stanze (il settore alberghiero offre un grande numero di posti di lavoro “in nero"), impieghi di “retroguardia”, che difficilmente faciliteranno il contatto con la gente e l’integrazione.

Un testo che ci appare di drammatica attualità è la testimonianza di Gunter Wallraff[4], giornalista tedesco che, alla fine degli anni ’80, finge di essere Leyent (Ali) Sigirlioglu, proveniente dalla Turchia e cerca di introdursi nel mercato del lavoro in Germania. Prova sulla sua pelle un ampio campionario di occupazioni pericolose, umilianti e mal pagate: manovale nei cantieri, lavoratore in un Mc Donald’s, bracciante in fattoria, operaio in un’acciaieria per poi finire cavia sperimentatrice di nuovi farmaci in un laboratorio farmaceutico e lavoratore in una centrale nucleare. Esperimento simile, più attuale ma che non differisce nei risultati è quello della giornalista americana Barbara Ehrenreich [5] che cerca di raccontare la lotta quotidiana di chi si ritrova nelle più basse e meno protette fasce della società statunitense. Ambedue questi testi mostrano la difficoltà per il lavoro, di continuare ad essere un valido strumento d’integrazione.

Altro elemento che è uscito in maniera preponderante è l’inconsistenza dell’entità “Pregassona bassa”. Né dal punto di vista amministrativo, né da quello socio statistico il nostro quartiere di ricerca è considerato come entità unica, i suoi margini sono labili e si confondono da una parte con l’ex comune di Pregassona e dall’altra con l’ambiente più urbano di Viganello, Molino Nuovo e Cassarate. Riteniamo quindi che il fatto di abitare a Pregassona bassa, per uno straniero non presenti particolari difficoltà o facilitazioni a livello di integrazione, pensiamo piuttosto che l’abitare in questo quartiere sia soprattutto conseguenza di scarse risorse economiche e della difficoltà di trovare alloggi popolari in altre zone di Lugano.


[1] Per seguire le gesta di questo inquietante consigliere federale rimandiamo a questo articolo:
http://www.indymedia.ch/it/2003/12/16355.shtml

[2] Cfr: Lepori A., Marazzi C, Forme di lavoro e qualità di vita in Ticino, Inchiesta sugli effetti sociale della flessibilità del mercato del lavoro in Ticino, DSS, SUPSI, 2002

[3] Op. cit: Ambrosiani Maurizio e Berti Fabio

[4] G. Walraff, Faccia da turco, Pironti, Napoli, 1992

[5] Ehrenreich Barbara, Una paga da fame. Come (non) si arriva alla fine del mese nel paese più ricco del mondo, Feltrinelli, 2002