Due parole sui miei vestiti

I vestiti che indossiamo creano immaginari, gli immaginari prodotti dai vestiti che indosso io, sono radicalmente diversi rispetto a quelli proposti dalla pubblicità del Vögele prima della Meteo alla televisione. In pochi secondi di immagine patinate e melodie che vanno ad agire direttamente sull'inconscio, i pubblicitari della linea di moda di massa riescono a legare l'idea di “famiglia”, “realizzazione”, “serenità” con il loro marchio aziendale. Scenette insulse e allo stesso tempo cariche di una straordinaria potenza persuasiva ci indirizzano verso il gorgo dell'acquisto compulsivo e dell'uso non oculato delle nostre risorse.

Le mie calze preferite sono di lana, le ha sferruzzate la mia nonna, sono calde, comode e confortevoli. Permettono al piede di respirare e non è necessario cambiarle tutti i giorni, d'inverno se indossate con una ciabatta o con dei sandali (riuscendo ad infischiarsene dell'effetto “switzerdutch” che comportano) forniscono un perfetto isolamento termico, senza per questo costringere i piedi in situazioni innaturali e poco gradevoli di compressione e occultamento. Sono così contento delle mie calze che ho rinunciato del tutto ai calzini di cotone elasticizzato bianco, con le strisce rosse e nere sulla caviglia, che usavo prima.

Mia nonna ricama, vicino all'imboccatura della calza, una piccola “x” colorata, le ho chiesto spiegazioni a proposito di questo gesto, mi ha raccontato che servirà, quando sarò chiamato a prestare servizio militare, per evitare di confonderle (o di farmele fregare) dai commilitoni. Non riesco a capire se, per la mia nonna, il militare fosse una segreta speranza di vedermi finalmente “a fare qualcosa di utile” o fosse solamente un dovere ineluttabile a cui i maschi della sua generazione non potevano opporsi. Sta di fatto che, quando ho fatto obiezione di coscienza, probabilmente complice anche alcuni problemi di salute che rendeva faticoso lo sferruzzamento, mia nonna ha smesso di produrre calze, e si è trovata tutta una serie di altri passatempi per trascorrere le giornate. Le poche paia di calzette che mi sono rimaste, ora le conservo gelosamente, cercando di non rovinarle e di farmele durare il più possibile. Nell'attesa di avere la costanza di imparare a fare a maglia e quindi a riuscire ad autoprodurmi le calze, ho dovuto trovare altre fonti a cui attingere per coprirmi i piedi. Durante un viaggio in Polonia ho comprato ad un prezzo irrisorio due paia di calzettoni fatti a mano, di lana grezza, talmente grossi che è sono impossibili da indossare con le scarpe. Sono stati cuciti da una vecchina, che poi le passava ad un signore fabbricante di scope che si recava al mercato per vendere, la loro bancarella, l'unica di prodotti artigianali, si trovava fra mucchi di rifiuti tedeschi ancora più o meno in buono stato che venivano raccolti e rivenduti dai mercanti polacchi. Mi piace che i vestiti che indosso hanno una storia e non siano soltanto tentativo di riempimento di un vuoto esistenziale.

Ho sempre avuto un rapporto strano con i vestiti, probabilmente è un problema di famiglia. Mio padre, per partecipare a cerimonie importanti (soprattutto matrimoni e funerali) chiede in prestito gli abiti ad uno zio ricco, che più o meno ha la sua taglia. Una delle cose che meno mi piace fare, è quella di andare per negozi ad acquistare scarpe. Ricordo bene l'odore sgradevole di plastiche e pelli conciate, il dover togliere e rimettere paia su paia di calzature, lo sguardo severo delle commesse che tastavano la punta dei piedi per capire se le dita fossero piegato o distese, la responsabilità di un acquisto che avrebbe dovuto durare almeno fino a quando il piede non sarebbe cresciuto troppo. Quando trovavamo il modello che pareva adatto, mia mamma ne comprava subito due paia, una di un numero più grande, per evitare di ripetere il calvario troppo di frequente. Non appena il mio piede si è stabilizzato (sul 46) abbiamo comprato tutta una serie di buone scarpe invernali, nere di pelle. Ancora oggi sto utilizzando quella scorta e ciò mi evita di dover entrare nei negozi di scarpe e soprattutto evita lo shock che inevitabilmente comporta il cambiar calzature. La mia nonna materna ha un'amica, che abbiamo sempre chiamato “Rosmarie delle scarpe”, perchè lavorava in un negozio di calzature e, non so per quale accordo contrattuale, ne poteva acquistava in numero esagerato, per poi ridistribuirle in famiglia. Anche questo ha contribuito per alcuni periodi, a tenermi lontano dai negozi di calzature e a stipare la nostra scarpiera che, nel pianerottolo sulla tromba delle scale, è per me sempre stata soprattutto un luogo in cui nascondere le chiavi.

Per i vestiti il problema è meno grave, mi fornisco soprattutto nei second-hand dove posso cercare quello che mi serve in un ambiente più confortevole. Comperando abiti usati si evita di contribuire alla produzione sconsiderata di merci, si ritarda il viaggio di merci ancora utilizzabili verso la discarica e, sicuramente, si risparmia. Inoltre si evita la sgradevolissima sensazione di indossare un vestito “nuovo”, gli innumerevoli cicli di lavatrice conferiscono ai vestiti una morbidezza e una famigliarità davvero gradevole. Solitamente mi affezioni molto ad alcuni abiti, ho una serie di tre magliette arancioni che fanno ormai parte di me. Le indosso sempre quando devo fare qualcosa di importante o ho degli appuntamenti che mi preoccupano. Le magliette arancioni mi fanno sentire più sicuro di me, sono dei panni in cui mi sento bene. E non sono percezioni indotte da campagne pubblicitarie, non sono immaginari creati dall'esterno. Sono percezioni e stati d'animo creati da un lungo periodo di intima affinità e conoscenza reciproca, grazie alle mille avventure quotidiane vissute da me e dalle mie magliette arancioni. Non sono magliette qualunque, sono le mie tre magliette arancioni, l'essenza stessa dell'idea di maglietta.

È inevitabili quindi in queste condizioni affezionarsi agli abiti, e volerli quindi utilizzare fino all'ultimo, non solo fino a quando sono un po' rovinati, ma fino a quando diventa impossibile o inutile indossarli dal punto di vista pratico o del saldo termico.

Altri abiti a cui sono particolarmente affezionato sono, una specie di casacca con il cappuccio con una tasca sul ventre in cui si possono infilare le mani, che era del fratello della mia morosa. Ora gestisce reti informatiche per un importante ente pubblico e non indossa più questo tipo di abiti. Ho un costume da bagno arancione, comprato per un euro al mercato dell'usato di Bologna, a cui ho tolto la retina sintetica interna che mi dava un po' fastidio, e che mi permette di bagnarmi in tutti quei posti in cui non si può stare nudi. Quando piove ho una bellissima mantella, fatta di tessuti tecnologici che (nel 1997) erano all'avanguardia. Non entra neppure una goccia di pioggia e non fa sudare, protegge dal vento ed ha tutta una serie di tasche con la cerniera a lampo in cui mettere cose che non si devono bagnare. Mi permette di passeggiare con la pioggia, di godermi il bosco durante i pomeriggi piovosi ottobrini e di resistere al vento freddo che soffia in inverno. Unico neo: sulla schiena, quasi all'altezza del collo, la striscia di velcro che tiene bloccato il cappuccio, quando non serve e in cui si incastrano i capelli.

Un commento su “Due parole sui miei vestiti”

  1. occorre forse prima di vestirsi, spogliarsi delle sembianze che ci si convince di dovere rappresentare. femminile, maschile, elegante, sportivo, frikkettone, sexy,… spogliarsi prima di tutto di queste categorie.
    Non si può fare questo senza attendersi da se stessi delle buone sensazioni.
    Smettere di pensare alle sembianze, e badare alle intime impressioni.
    Ma occorre tempo.
    O meglio, occorre entrare nel tempo, e uscire dal palcoscenico, appena in tempo prima di diventare le comparse della recita consueta.

I commenti sono chiusi.