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La prima volta che ho comperato un preservativo

Ero in passeggiata scolastica, alle medie. Ci avevano portato in Alsazia con il bus. Mi ricordo che un giorno il programma didattico prevedeva: la mattina visita ad un campo di concentramento, per il pomeriggio invece sosta all’Europapark. Abbiamo visitato il campo di concentramento a passo veloce, soffermandoci soltanto un attimo sulle camere a gas, tanta era la voglia di andare all’Europapark.

Non mi ricordo se dopo l’Europapark o dopo il campo di concentramento, ma comunque in un momento di “uscita libera” io ero andato in farmacia e avevo chiesto, sfoderando la mia miglior pronuncia, “des condoms”. Così a bassa voce che la farmacista non aveva capito. Ho dovuto ripetere. Avevo cercato sul BOCH minore (quello con il vulcano in copertina) la definizione. Mi ero anche allenato.

Non avevo la minima ambizione di utilizzarli nel corso di quella passeggiata scolastica, sono sempre stato un tipo abbastanza cosciente delle proprie possibilità. Una farmacia in Alsazia mi sembrava però offrire la privacy necessaria per un acquisto di questo tipo. Una volta a casa ne ho provati due o tre. Avevano uno sgradevolissimo odore di vaniglia sintetica. Mi immaginavo che già il solo indossarli mi avrebbe fatto provare chissà quali sensazioni. E invece niente. E poi quelli avanzati sono rimasti nella cassetta di metallo rossa chiusa a chiave nel cassetto della scrivania, inutilizzati, per anni.

Oggi quando li compero alla Migros cerco sempre di associarli ad una spesa che lasci trasparire torbida virilità. Cerco di impressionare un po’ la cassiera. Spesso compero gli avocadi, oppure il sapone per la doccia con i noduli di titanio, o almeno le verdue bio o la schiuma da barba. Qualcosa che dia profondità alla mia spesa. Raramente mi pare impressionata. Solo una volta mi ha rivolto un “buona serata” che mi è parso allusivo e forse leggermente lascivo.

La prima volta che ho rubato un libro in biblioteca

Su stimolo di mia sorella che ha scritto “La prima volta che Lenno ha mangiato un avocado” mi è venuta voglia di continuare la rubrica “La prima volta che…“.

Ero alle medie, nella biblioteca delle Scuole Medie di Pregassona, e ho preso un libro in cui Dario Fo raccontava la sua gioventù, e poi l’ho restituito. E poi appena la bibliotecaria lo ha rimesso nello scaffale, l’ho ripreso e l’ho messo in borsa e me lo sono portato via. Mi sono sentito un po’ in colpa perché la bibliotecaria Cristina mi voleva molto bene ed era sempre gentile con me. Ora che Dario Fo è morto sento che è venuto il momento di ammetterlo pubblicamente. Non l’ho mai più nemmeno riletto. Se lo ritrovo giuro, Cristina, che te lo riporto.

Non ho mai più rubato libri, però ho rubato:

– Un estintore da un autosilo.
– Due tavoli e quatro panchine da festa campestre.
– Un hardisk da un tera.
– Un caricatore del Mac (parzialmente dimenticato, ma sapevo chi fosse il vero proprietario).
– La pila di una maschera in un cinema.
– Uno o due cestini del Denner.
– Decine di rotoli di carta igienica (per almeno due anni non ne ho comperata).
– Pacchi di fogli per la stampante.

La prima volta che ho mangiato il guacamole

La prima volta che ho mangiato il guacamole me la ricordo bene, potrei dire anche l’anno andando a cercare, che era l’anno prima di fare la SUPSI e dovevo fare uno stage in un posto in cui c’erano delle stagiste più grandi di me, molto belle, che avranno avuto non so ventidue o ventitre anni.

Il giorno in cui terminavano lo stage avevano organizzato una piccola festa e avevano portato il guacamole. E giù tutti a parlare di guacamole, io lo faccio così, tu cosa ci metti, il pomodoro, il succo di lime, eccetera. E poi si intestardivano: no, ma il VERO guacamole si fa così o cosà… Tutti esperti di guacamole.

Io non avevo mai sentito parlare del guacamole e mi sono sentito proprio strano ad essere l’unico in quella stanza a non aver mai assaggiato il guacamole e a non avere niente da dire sul tema. E c’era anche la Jessica che mi piaceva di brutto che sembrava molto a suo agio con il guacamole e allora ho fatto l’indifferente. L’ho provato e non è che mi sia piaciuto tantissimo.

Noi gli avocadi a casa li mangiavamo solo di rado, tipo a natale, con il cocktail di gamberi. Non mi sono mai piaciuti tanto.
Poi ho provato a farlo anche io il guacamole e ogni tanto, quando gli avocadi sono troppo maturi, tipo questa sera, lo faccio ancora, ma mi rimane sempre l’idea che sia una cosa un po’ snob.
Mi sembra molto più proletario mangiare l’avocado come fa Ste che ci toglie il seme e riempie il buco di maiones e poi lo mangia con il cucchiaino.

Cmq il vero segreto del guacamole è la polverina pronta che gli da quel buon gusto di guacamole standard. Tutti gli altri restano solo degli avocadi schiacciati.

E poi certi dicono LA guacamole. Secondo me è maschile perché fatto con l’avocado. IL guacamole. E vedendo come reagisce stizzito il correttore automatico di Textedit forse, il plurale di avocado, resta avocado e non avocadi.

Un ultimo appunto sull’avocado: prima che avessimo un gatto, nel salotto di casa avevamo una pianta di avocado grandissima, con delle belle foglie verdi e lucide che a Natale ci mettevamo su addirittura le bocce. Ma poi è arrivato il gatto che arrampicandosi sulla pianta ha staccato tutte le foglie.

La prima volta che ho fotografato un arcobaleno

Mi sono sempre chiesto come mai in almeno metà delle buste di fotografie (vi ricordate quando ancora vi erano le buste di fotografie) ci fosse una foto di un arcobaleno. Che non mi era mai passato per la testa di fotografare un arcobaleno. Di solito sono foto bruttine, grigiastre, con l’arcobaleno piccolo e scolorito.

Ma oggi mentre stavo tornando a casa è uscito un arcobaleno bellissimo che non ho proprio potuto resistere e ho scattato. E ho capito all’improvviso perché la gente fotografa gli arcobaleni. Che magari non fanno nemmeno una foto in tutto l’anno, tranne che per il compleanno dei figli e poi quando c’è un arcobaleno sentono l’impulso irrefrenabile di andare a cercare la macchina, tirarla fuori dalla custodia e fotografare. Un arcobaleno.

Che poi l’arcobaleno passava in mezzo alle case popolari e che questa cosa si prestava a metafore legate alla giustizia sociale.

Che poi le foto dell’arcobaleno non servono a nulla e non le attacchi nemmeno sugli album.