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La prima volta che ho comperato un preservativo

Ero in passeggiata scolastica, alle medie. Ci avevano portato in Alsazia con il bus. Mi ricordo che un giorno il programma didattico prevedeva: la mattina visita ad un campo di concentramento, per il pomeriggio invece sosta all’Europapark. Abbiamo visitato il campo di concentramento a passo veloce, soffermandoci soltanto un attimo sulle camere a gas, tanta era la voglia di andare all’Europapark.

Non mi ricordo se dopo l’Europapark o dopo il campo di concentramento, ma comunque in un momento di “uscita libera” io ero andato in farmacia e avevo chiesto, sfoderando la mia miglior pronuncia, “des condoms”. Così a bassa voce che la farmacista non aveva capito. Ho dovuto ripetere. Avevo cercato sul BOCH minore (quello con il vulcano in copertina) la definizione. Mi ero anche allenato.

Non avevo la minima ambizione di utilizzarli nel corso di quella passeggiata scolastica, sono sempre stato un tipo abbastanza cosciente delle proprie possibilità. Una farmacia in Alsazia mi sembrava però offrire la privacy necessaria per un acquisto di questo tipo. Una volta a casa ne ho provati due o tre. Avevano uno sgradevolissimo odore di vaniglia sintetica. Mi immaginavo che già il solo indossarli mi avrebbe fatto provare chissà quali sensazioni. E invece niente. E poi quelli avanzati sono rimasti nella cassetta di metallo rossa chiusa a chiave nel cassetto della scrivania, inutilizzati, per anni.

Oggi quando li compero alla Migros cerco sempre di associarli ad una spesa che lasci trasparire torbida virilità. Cerco di impressionare un po’ la cassiera. Spesso compero gli avocadi, oppure il sapone per la doccia con i noduli di titanio, o almeno le verdue bio o la schiuma da barba. Qualcosa che dia profondità alla mia spesa. Raramente mi pare impressionata. Solo una volta mi ha rivolto un “buona serata” che mi è parso allusivo e forse leggermente lascivo.

La prima volta che ho mangiato il guacamole

La prima volta che ho mangiato il guacamole me la ricordo bene, potrei dire anche l’anno andando a cercare, che era l’anno prima di fare la SUPSI e dovevo fare uno stage in un posto in cui c’erano delle stagiste più grandi di me, molto belle, che avranno avuto non so ventidue o ventitre anni.

Il giorno in cui terminavano lo stage avevano organizzato una piccola festa e avevano portato il guacamole. E giù tutti a parlare di guacamole, io lo faccio così, tu cosa ci metti, il pomodoro, il succo di lime, eccetera. E poi si intestardivano: no, ma il VERO guacamole si fa così o cosà… Tutti esperti di guacamole.

Io non avevo mai sentito parlare del guacamole e mi sono sentito proprio strano ad essere l’unico in quella stanza a non aver mai assaggiato il guacamole e a non avere niente da dire sul tema. E c’era anche la Jessica che mi piaceva di brutto che sembrava molto a suo agio con il guacamole e allora ho fatto l’indifferente. L’ho provato e non è che mi sia piaciuto tantissimo.

Noi gli avocadi a casa li mangiavamo solo di rado, tipo a natale, con il cocktail di gamberi. Non mi sono mai piaciuti tanto.
Poi ho provato a farlo anche io il guacamole e ogni tanto, quando gli avocadi sono troppo maturi, tipo questa sera, lo faccio ancora, ma mi rimane sempre l’idea che sia una cosa un po’ snob.
Mi sembra molto più proletario mangiare l’avocado come fa Ste che ci toglie il seme e riempie il buco di maiones e poi lo mangia con il cucchiaino.

Cmq il vero segreto del guacamole è la polverina pronta che gli da quel buon gusto di guacamole standard. Tutti gli altri restano solo degli avocadi schiacciati.

E poi certi dicono LA guacamole. Secondo me è maschile perché fatto con l’avocado. IL guacamole. E vedendo come reagisce stizzito il correttore automatico di Textedit forse, il plurale di avocado, resta avocado e non avocadi.

Un ultimo appunto sull’avocado: prima che avessimo un gatto, nel salotto di casa avevamo una pianta di avocado grandissima, con delle belle foglie verdi e lucide che a Natale ci mettevamo su addirittura le bocce. Ma poi è arrivato il gatto che arrampicandosi sulla pianta ha staccato tutte le foglie.

Il fiume

Foto di Enrico Boggia

Da: Voce Libertaria / no 16 – marzo 2011

È difficile decretare con precisione dove nasca il fiume Cassarate, se lo si risale con pazienza ci si può perdere fra le sue parecchie ramificazioni. Sicuramente la sua sorgente è in un punto imprecisato alle pendici del Gazzirola, in zona san Lucio, monti su i cui sentieri decine di contrabbandieri hanno trasportato le bricolle, trasfugando riso, sale, sigarette e più recentemente marijuana da una parte all’altra di un arbitrario confine.

Zampillando fra un sasso e l’altro il fiume ha creato la Val Colla, e bagna paesi con nomi che arrivano dritti da epoche remote: Colla, Scareglia, Signora. Scende ancora, il fiume, arriva a Sonvico, e qui ha già raccolto abbastanza acqua da creare alcune belle pozze. È difficile accedervi, bisogna un po’ arrampicare e un po’ procedere con i polpacci in acqua. Ma quando ci si arriva si ha la sensazione di essere in un luogo fuori dal mondo, dove bagnarsi nudi, dove godersi i pochi raggi di sole che riescono a solcare il denso soffitto di foglie. Luoghi dove suonare il dijeridou, improvvisarsi cantori gregoriani, mettere in equilibrio i sassi uno sull’altro lasciandosi andare a derive mistiche impensabili altrove. Sotto il ponte di spada nel Cassarate si getta il Capriasca, la cui acqua è percettibilmente più tiepida. Qui cresce la felce dolce, la sua radice ha il gusto della liquirizia. Continua la lettura di Il fiume

Un ricordo della prope, per cercare di salvare la SSPSS

Il testo qui sotto è stato scritto per una mostra, allestita nelle scorse settimane contro l‘abrogazione o riduzione sostanziale del curricolo di certificato e di maturità specializzata della scuola SSPSS di Canobbio decisa dal cantone. In altre parole, lo smantellamento definitivo di un curricolo scolastico che vanta quarant‘anni di storia. Il Comitato Genitori della SSPSS è a dir poco indignato per questa decisione frettolosa, poco maturata e dettata soprattutto da motivi finanziari. (indymedia o OCST)

 

Passeggiata di classe dell’ultimo anno di formazione: invece che puntare verso mete più gettonate mediamo una settimana di permanenza per quasi tutta la classe a Ces, villaggio neorurale sulle montagne leventinesi. Settimana di pioggia, grigio e nebbia. Accendiamo le stufe con la legna tagliata nella vicina torbiera che gli abitanti del villaggio stanno cercando di far tornare alla situazione originaria, prima che venisse "bonificata", più umida ma ricca di vita e biodiversità.
Abbiamo fatto la spesa per la settimana presso coltivatori biologici del piano di Magadino, e prepariamo banchetti sulle stufe economiche della grande casa con il tetto in piode.

In questa foto (del 2002 credo), da sinistra si vedono Enrico, Joel, io e Mario, la stanchezza e è evidente, la gioia prodotta da una settimana di vita comunitaria è forse meno visibile ma indelebile. Continua la lettura di Un ricordo della prope, per cercare di salvare la SSPSS

Pratiche antigieniche: baciare il gesù bambino

Ho incrociato ieri, per strada, una locandina della parrocchia di Campione d’Italia, che proponeva per passare il pomeriggio dell’epifania il "bacio al gesù bambino". Questa proposta mi ha ricordato un testo, scritto per la scuola due anni fa, a proposito di Don Milani. Ne ripropongo qui uno stralcio con qualche piccola correzione. In fondo alla pagina riporto anche la parte introduttiva e quella conclusiva.

Avevo sempre avuto, l’immagine dei preti come personaggi di cui non fidarsi troppo, che mi guardavano con diffidenza per il fatto che a scuola non frequentavo le lezioni di educazione religiosa e che non ero battezzato. Ricordo che il vecchio prete di Sonvico (il paese in cui sono cresciuto) una volta mi sequestrò la bicicletta, perché entrai nel sagrato senza scendere dalla sella, questa cosa era considerata una grava mancanza, quasi una blasfemia. È dovuto intervenire mio papà per farmi riconsegnare la bici. 

Ricordo anche che, per l’epifania, mia nonna mi portava in chiesa. Alla fine della funzione arrivavano tre signore del paese, goffamente travestite da Re Magi e distribuivano dei regalini (erano appunto questi regalini ad interessarmi). Ad un certo punto della messa tutti si alzavano e andavano a baciare una statuina del gesù bambino: io provavo un po’ di ribrezzo. I miei genitori mi avevano insegnato che attraverso la saliva si trasmettevano le malattie, e che per esempio quando si beveva dalle fontane non si doveva appoggiare le labbra sul cannello da cui esce l’acqua (lo spauracchio, raramente citato ma ben presente nel nostro immaginario, era quello che dei "drogati" avessero bevuto dalla stessa fontana prima di noi, infettandola in qualche modo).  

Per questo mi sembrava una pratica antigenica quella di baciare tutti la stessa statuina, e quindi facevo solo finta. E se la persona che baciava il gesù bambino davanti a me fosse stata drogata? Nonostante le mille attenzioni sospettavo che il prete (o la nonna) si accorgesse che non appoggiavo davvero le labbra sulla statuina e che per questo ce l’avesse a male con me e che mi considerasse un usurpatore di dolcetti che sarebbero dovuti finire nelle pance di bambini battezzati e non in quelle di senzadio come me. 

Anni più tardi ne ho parlato con mia sorella, anche lei si era fatta allettare dai dolcetti distribuiti dal clero e si era fatta convincere per un periodo (con grande gioia della nonna) a frequentare almeno la messa dell’epifania. Condivide con me il ribrezzo per questa pratica antigienica, in particolare mi ha fatto notare che il particolare che più la disgustava era il tovagliolo che il prete utilizzava dopo ogni bacio per asciugare la saliva depositata sulla statuina che, a ben vedere, non faceva altro che spalmare uniformemente la bauscia sul sacro idolo. 

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